CINEMA E TELEVISIONE - Tesi di Marco Cervelli con Intervista a CARLO LIZZANI

CINEMA E TELEVISIONE
di Marco Cervelli


Introduzione

“Cesare Zavattini, aveva espresso più volte il desiderio di fare un film che si limitasse a seguire un uomo per novanta minuti”1 .
Questa idea di Cesare Zavattini sceneggiatore tra i più talentuosi del neorealismo Italiano, suona molto singolare per la straordinaria attualità che questo concetto apparentemente ha nel periodo storico  che stiamo vivendo.
Tra il dopoguerra e i primi anni cinquanta Zavattini collaborò con Vittorio De Sica alla realizzazione di alcuni tra i più importanti e ricordati capolavori del cinema Italiano, insieme ad altri importanti autori di quel tempo come Roberto Rossellini e Luchino Visconti sui quali mi soffermerò in maniera più analitica in seguito. La realtà e il modo in cui poterla raccontare è stato argomento cruciale nel dibattito filosofico, in un continuo susseguirsi di teorie e riflessioni che arrivano fino ai giorni nostri. Quello che mi affascina notare è come questa interpretazione del reale fosse stata recepita ed elaborata in un periodo storico figlio di innovazioni tecnologiche come il cinema, la radio e la televisione, che sono state rivoluzionarie per quanto riguarda la comunicazione di massa 2 . In particolare ho citato all’inizio di questa presentazione un famoso pensiero che evidenzia la mia volontà di soffermarmi su uno spicchio di novecento che credo importantissimo per l’argomento che mi accingo ad indagare. Analogamente intendo soffermarmi su un’altro fenomeno che appare qualche decennio dopo, questa volta su un nuovo media e che prende il nome di reality tv. Il campo di ricerca potrebbe essere vastissimo in quanto nel Novecento sono apparsi fenomeni letterari e anche cinematografici che potrebbero benissimo far parte di questo studio, come per esempio un certo tipo di novelle nord americane o ancora il cinema russo degli anni Venti che a suo modo affronta il problema realtà 3 , invece mi limiterò a trattare certi argomenti soltanto se questi mi aiuteranno a spiegare il mio vero oggetto di ricerca.
Dunque questa ricerca intende tracciare un parallelismo tra quello che fu il periodo più culturalmente vistoso e studiato (come dimostra la numerosa bibliografia sull’argomento) del cinema Italiano, con l’avvento del fenomeno reality tv che ha spopolato in Italia ed all’estero fino a arrivare ad essere argomento di dibattito e discussione tra esperti della comunicazione, cineasti, autori televisivi, giornalisti ecc. 
Naturalmente le problematiche che si possono trovare lungo un percorso di questo genere sono varie, in quanto può sembrare audace se non dissacrante accostare due mondi cosi lontani fra loro, ma il lavoro che mi accingo ad eseguire non vuole essere un paragone tra due fenomeni dissimili ma tra alcune caratteristiche che apparentemente tutti e due hanno evidenziato in teoria e in concreto.
Tracciando una scaletta su come intendo muovermi all’interno di questo studio, cercherò nella prima parte, attraverso i punti salienti e gli autori più importanti che contraddistinsero il neorealismo italiano, di analizzare con quale criterio furono scelti gli attori, le storie e che cosa premeva raccontare ai registi di quel periodo storico. In particolare mi soffermerò a prendere in considerazione i primissimi anni del dopo guerra che videro la realizzazione di film, come Roma città aperta, Paisà, Germania anno zero, La terra trema, Sciusciá e Ladri di biciclette, che mi aiuteranno nella mia analisi, insieme ad uno sguardo al cinema immediatamente precedente. Dopo un breve percorso storico che vuole mettere in luce che cosa ha preceduto il neorealismo sia cinematograficamente sia socialmente (cercando di sintetizzare il più possibile argomenti estremamente complicati e che necessiterebbero di studi ben più approfonditi) e quindi che cosa avrebbe potuto influenzarlo, cercherò di capire che cosa univa le idee di molti cineasti dell’epoca e cosa invece le differenziava. Dopo questa retrospettiva sui film antecedenti la fine della seconda guerra mondiale, inizierò a delineare la nuova mentalità che si stava sviluppando nei cineasti del periodo dando poi maggior rilievo  a quelli che sono ritenuti i padri del movimento.
La seconda parte tratterà il fenomeno reality tv evidenziando il perché della sua nascita e il fine che i suoi autori intendevano ed intendono raggiungere, notando come questa definizione racchiuda programmi e intenti differenti l’ uno dall’altro. Non mi soffermerò semplicemente agli show che nello stesso momento in cui sto scrivendo sono presenti nelle nostre case attraverso il tubo catodico, ma cercherò di dare ampio respiro alla definizione di tv verità e reality show  definendo un raggio di azione che mi consentirà di capire le differenze che anche in questi fenomeni mediatici possiamo riscontrare. Lo straordinario successo di pubblico che questo tipo di televisione ha avuto è stato più volte dibattuto,  anche dagli stessi mass media, ed anche quest’ aspetto sarà affrontato a conclusione del secondo capitolo. Mi limiterò a circoscrivere il campo di azione alla sola Italia, consapevole che esistono molti intellettuali di varie culture  che si sono posti le mie medesime domande e che hanno riscontrato gli stessi esiti di share, nei loro paesi.
L’ affermazione con cui si apre questa breve prefazione sarà il pretesto che mi introdurrà all’interno della terza parte, la quale rielaborando gli argomenti citati nei capitoli precedenti evidenzierà le possibili similitudini e divergenze riscontrate in questo cammino. La realtà raccontata dal cinema della seconda metà degli anni Quaranta, che cosa voleva apportare nel panorama comunicativo italiano? In che modo condizionò e fu condizionata dalla particolarissima situazione storica in cui e’ nata? Come si possono spiegare alcune analogie con un certo tipo di spettacoli mediatici nati alla fine degli anni Ottanta e esplosi a cavallo con l’inizio del nuovo millennio? C’e stata, da parte di alcuni autori televisivi la volontà di spezzare con il passato e di rivalutare la realtà dell’odierno portandola in primo piano e sotto gli occhi del pubblico, che diventava anche un possibile protagonista? Queste sono solo alcune domande a cui cercherò di dare una possibile risposta, consapevole del fatto che probabilmente ne potrebbero nascere delle nuove.    

David Bordwell – Kristina Thompson, Storia del cinema e dei film, Milano, Il Castoro, 1998,Vol. 2, p.82

Melvin L.DeFleur –Sandra J.Ball Rokeach, Teorie delle comunicazioni di massa, Bologna, Il Mulino, 1995, primo capitolo

Alfredo Boschi, Teorie del cinema, Roma, Carocci editore, 1998, pp.45-46.

 

PRIMO CAPITOLO

IL NEOREALSMO ITALIANO

Da ‘I telefoni bianchi’ a Ossessione.

Il paesaggio italiano, durante la fine della seconda guerra mondiale e nell’ immediato periodo successivo, presentava soltanto distruzione e povertà. L’economia era ferma la società aspettava trepidante l’arrivo degli alleati e le città erano martoriate dai bombardamenti e dalle rappresaglie naziste fasciste. Nel 1943 gli operai e tecnici di Cinecittà si ritrovarono disoccupati a causa della guerra e in molti si rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò, aspettando per mesi la liberazione alleata. 
Con la caduta del regime, in Italia si perse il centro organizzativo cinematografico . Alcuni ufficiali americani, arrivati alle porte di Roma,  erano stati incaricati dai propri superiori di redigere un rapporto su quella che poteva essere la principale rivale di Hollywood in Europa, e uno di questi documenti redatto dal maggiore statunitense J.G.Cave nell’agosto del 1944 recitava così “Secondo notizie non confermate tutti i materiali cinematografici sono stati trasportati in Germania nel novembre del 1943 e gli studi sono stati poi adibiti a depositi di materiali tedeschi […]. Sette degli studi più importanti di cinecittà sono stati distrutti  dall’aviazione alleata […]” . Gli statunitensi identificavano il cinema italiano con i suoi teatri di posa non considerando che anche durante la fine del fascismo si stava sviluppando un nuovo impulso realista che aveva influenzato un certo tipo di cinema e che non necessitava affatto di grandi stabilimenti per la sua realizzazione. Questa nuova forma di pensiero diede vita ancor prima della fine della guerra alla realizzazione di film come Ossessione, prima opera di Luchino Visconti del (1943), e I bambini ci guardano di Vittorio de Sica del (1943) che precedono l’avvento del neorealismo. Anche al livello teorico possiamo riscontrare dichiarazioni che ci riconducono sulla stessa strada, come quando nel 1941 Giuseppe de Santis e Mario Alicata scrissero su il n. 130 di Cinema il 25/11/1941 “Siamo convinti che un giorno creeremo il nostro film più bello seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna a casa.
Per capire in maniera più precisa che cosa accadde all’inizio degli anni quaranta nella mente e nelle idee di alcuni giovani registi ed anche in quelle di navigati cineasti bisogna fare un passo indietro, che ci riporta per un breve passaggio agli anni trenta.
Dopo la grande crisi economica che colpì anche l’industria cinematografica Italiana e dopo alcune leggi protezionistiche che tra il 1931 e il 1933 non diedero miglioramenti alle condizioni generali del Paese, nel 1934 il governo creò la Direzione Generale per la Cinematografia, diretta da Luigi Freddi. Già nel 1932 il regime di Mussolini inaugurò anche la mostra del Cinema di Venezia, ideata come vetrina internazionale per i film italiani . Freddi incentivò un cinema di evasione e di distrazione vicino al modello Hollywoodiano, e di conseguenza a questo ed a un viaggio che lo stesso Freddi fece per visionare la situazione del cinema tedesco, lo Stato prese dei provvedimenti che nel corso degli anni non trasformarono mai i film italiani in una macchina di propaganda statale, come invece accadde in Germania e in Russia.
Nel 1935 Freddi fondò anche una scuola di cinema, il Centro Sperimentale di Cinematografia (dove si promosse lo studio delle cinematografie di tutto il mondo come la scuola Russa e i maestri Francesi), e due anni dopo nacque la rivista Bianco e Nero che insieme alla sua parente ‘Cinema’  diedero alla luce nel corso degli anni ad  alcuni tra i più importanti registi e teorici dell’epoca .
Le convinzioni che alimentavano l’operato di Luigi Freddi erano tutte dirette verso la convinzione che il pubblico non volesse porsi troppe riflessioni al cinema , infatti egli credeva che l’evasione, il melodramma e le commedie incontrassero il gusto del popolo, a differenza di opere troppo propagandistiche o eccessivamente vicine ai problemi della gente, in questa maniera era più facile che il pubblico si identificasse con le storie proiettate. Il decennio, antecedente la seconda guerra mondiale, vide fiorire molti generi di massa, in particolari ebbero grande risonanza film ambientati tra gente ricca e in ambienti lussuosi e scintillanti, da qui la loro definizione film dei telefoni bianchi..Tra i precursori di questa tendenza si possono citare titoli come La canzone dell’amore di Gennaro Righelli (1930), La segretaria privata di Goffredo Alessandrini (1931) T’amerò sempre di Mario camerini (1933). Anche se bisogna ricordare che l’avvento dei film dei telefoni bianchi è da orientare intorno al 1938, fino a quasi tutta la durata della guerra. “Grazie a questa produzione si diffonde un attenzione per un tipo di ambiente e di comportamenti che risponde a grandi attese di massa, come la conquista di un lavoro stabile, una paga sicura o di una casa ben arredata. Film come Lo vedi come sei...Lo vedi come sei? di Mattoli del (1939) o decine di altri titoli, tra cui Mille lire al mese, Il diavolo va in collegio o Gli uomini sono ingrati ecc. ecc. alimentano i sogni collettivi della piccola borghesia che aspira ad una scalata sociale, che si proietta ben oltre le mille lire al mese ”. Durante gli anni trenta iniziarono a lavorare nel cinema attori come Ettore Petrolini, Totò e Vittorio de Sica il quale divenne famoso grazie a commedie romantiche come Gli uomini che mascalzoni(1932) e Il signor Max (1937), entrambi dirette da Mario Camerini .
Nello stesso periodo i generi commedia e dei telefoni bianchi diedero successo anche a personaggi fondamentali per il decennio successivo, come Anna Magnani e Aldo Fabrizi ; il loro incontro sul grande schermo nel film Campo dei Fiori di Mario Bonnard (1943) anticipa il sodalizio in Roma città aperta.
Anche durante la guerra, come detto in precedenza il regime non censurò in maniera così rilevante (come accadde in Germania) l’operato dei cineasti, anche se  Eitel Monaco (successore di Luigi Freddi)  attuò un politica preventiva nei riguardi delle storie raccontate che non dava spazio a idee che non giovassero in maniera diretta o indiretta alla causa del regime . Bisogna considerare che un governo di dittatura durante un conflitto di proporzioni mondiali non lascia spazio a prodotti che potrebbero danneggiarlo agli occhi delle masse.  Tra il 1940 e il 1942 l’affluenza di pubblico e la produzione crebbero in maniera sensibile: 89 lungometraggi nel 1941, 119 nel 1942; una crescita che agevolò la carriera di nuovi registi , anche grazie alla mancanza di pellicole americane che erano state bandite dal panorama nazionale, da una legge proibizionistica del 1938. Ma anche se l’industria filmica era fiorente, questa brevissima sintesi non può comunque tralasciare un certo tipo di avvicinamento alla realtà che già in tempi non sospetti maturava nelle convinzioni di alcuni intellettuali e cineasti, come ci testimonia questo scritto di Leo Longanesi apparso sulla rivista dell’Italiano:“Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografie per costruire un film....È appunto la verità che fa difetto ai nostri film. Bisogna gettarsi per strada, portare la macchina da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni. Basterebbe uscire di strada, fermarsi in un punto qualsiasi e osservare quel che accade per mezzora, con occhi attenti e senza preconcetti di stile e fare un film italiano naturale e logico .” La cosa incredibile è che questo documento risale al 1933. 
Negli anni trenta in letteratura e in alcuni circoli intellettuali già si era creata una corrente che si contrapponeva al fascismo e alle sue espressioni, una generazione più giovane stava gia discutendo i meriti dell’arte realistica, prendendo come fonte di ispirazione la letteratura contemporanea nord americana (Hemigway, Faulkner) e il naturalismo francese e il verismo italiano del secolo passato.
Barbaro ed altri studiosi insistono sulla ‘tradizione ottocentesca’ sulle opere di Verga e Di Giacomo, come ‘filone aureo’ del neorealismo italiano e indica in particolare Assunta Spina e Sperduti nel buio come archetipi del suo modello di cinema realistico. (1) Le riviste Bianco e nero e Cinema invocavano registi che filmassero i problemi della gente comune in ambientazioni vere, in contrapposizione ai telefoni bianchi ed alla dittatura. (come sopra riportato con la dichiarazione di Alicata e De Santis).Anche i film di pura propaganda come La nave bianca, Un pilota ritorna e L’uomo della croce di Roberto Rossellini rispettivamente del (1941) (1942) (1943) iniziano ad avere caratteristiche riscontrabili nei film che verranno negli anni successivi come ad esempio: riprese in esterno, attori non professionisti e una certa apertura ai dialetti . Ripercorrere la realtà del cinema durante la dittatura significa stabilire quale fu  l’immaginario cinematografico sotto il fascismo e quale fu l’immaginario cinematografico italiano del film postbellico. Cerchiamo di capirlo attraverso i tre film che più di tutti vengono considerati i diretti antenati e precursori della nuova tendenza che stava nascendo,  i quali sono: Quattro passi fra le nuvole di Alessandro Blasetti (1942) I bambini ci guardano di Vittorio De Sica del (1943) e Ossessione di Luchino Visconti del (1943). Micciché osserva che questa trilogia ha in comune non già elementi di preludio al neorealismo, bensí elementi di rottura con il cinema sonoro dell’epoca. Essi costituiscono il confine, il punto di separazione, tra l’immaginario cinematografico preneorealistico e quello neorealistico, ma più con gli occhi volti al passato da negare che al futuro da fondare. Quattro passi tra le nuvole, racconta la storia di un viaggiatore frustrato da una vita troppo piatta, che durante un viaggio in campagna si finge il marito di una ragazza ripudiata dalla famiglia perchè incinta. L’ imbarazzo iniziale dovuto all’incontro con la famiglia di lei viene sorpassato dal protagonista grazie alla vivacità della nuova situazione. Il film sottolinea il contrasto fra la dura e grigia realtá dello status piccolo borghese (sottolineati nelle sequenze iniziali e finali della pellicola) e la sua reverie idillico agreste, connotata per altro all’insegna dell’atto mancato e dell’impotenza (l’irrealizzato rapporto tra il commesso viaggiatore, Gino Cervi e la ragazza madre, Adriana Benetti), e racchiusa come sognante parentesi fra le realistiche scene di apertura e chiusura . Con I bambini ci guardano De Sica  spinge la storia sull’orlo della tragedia raccontando di una donna che vuole lasciare la famiglia, marito e figlio (Pricó), per un amante. Nel film assistiamo ad un rovesciamento di posizioni; quella società dei Telefoni bianchi che fino a ieri era stata presentata come oggetto dei desideri, qui viene messa sotto osservazione critica e per di più da un bambino . De Sica insieme allo sceneggiatore Zavattini (qui nasce il loro sodalizio) complicano la vicenda adottando appunto il punto di vista del figlio. Il finale, da vero rivoluzionario per l’epoca descrive il rifiuto del bimbo nel baciare la madre che ha condotto il padre al suicidio con il suo comportamento. Il personaggio di Pricò delinea la solitudine delle nuove generazioni e lo sgretolamento della famiglia piccolo borghese di derivazione Cameriniana guardando il mondo degli adulti prigioniero della propria irresponsabilità e del proprio conformismo .  In questi due film si inizia a vedere una certa critica sociale ed si inizia a perdere quella eleganza e quello stile tipico dei Telefoni bianchi, che si limitavano a creare dei facili sogni a cui molti volevano partecipare evitando certi temi scottanti come quelli evidenziati da De Sica e Blasetti. L’ ultimo dei film elencati Ossessione è la prima opera di Luchino Visconti, il quale apre letteralmente la strada ad importanti cambiamenti nel modo di pensare del tempo. Visconti definì cadaveri che si sentono vivi i vecchi cineasti e la vecchia borghesia fascista e nel 1943 auspicando di uscire da quel melodramma diresse la sua prima opera. Se si ripensa a questo film oltre ad un realismo sociale si deduce altro. Ossessione trapianta nella bassa padana il romanzo di James M. Cain Il postino suona sempre due volte e si sviluppa in due modi: in una forte tensione realistica, e in  un’anima ancora influenzata dall’eredità del melò.
Il film segue la passione amorosa, che conduce un vagabondo e la moglie di un barista ad assassinare il marito di lei e Visconti oltre ad affrontare il tema dell’adulterio inserisce un velo di omosessualità che nel romanzo americano mancava. La messa in scena è molto scabra e tende a dare un´ immagine fortemente realistica anche se i movimenti di macchina sono ancora vicini al metodo Hollywoodiano, ma la vera sorpresa che porta con se questo film è la voglia di rompere con il passato, anche se come abbiamo visto, stilisticamente, ancora ne possiamo trovare forti tracce. Ma in Ossessione il regista da spazio all’occultato rovesciando tutti i topoi dell’immaginario cinematografico degli anni trenta: il sesso, da eterea sublimazione spirituale, in densa carnalità fisiologica; la famiglia da cellula della <socialità> in disumana prigionia; il mondo contadino, da centro dell’unità in centro della frantumazione; il paesaggio, da fondale idilliaco, in scenario torbido .Il film rimette tutto in discussione  e azzera e distrugge gli stereotipi precedenti. Barbaro definì , in un articolo apparso sulla rivista ‘Film’ nel 1943 dal titolo ‘Realismo e moralità, una storia raccapricciante ambientata nel più tenero e dolce paesaggio italiano, un pezzo d’Italia quale non si era mai visto nei nostri film… E’ questo che finalmente ci ha dato Ossessione, la rappresentazione artistica di una realtà angosciata contro le archeologie e i  divertimenti a formula fissa .Da ricordare in oltre che l’opera di Visconti rappresenta una sorta di manifesto culturale dei giovani critici della rivista Cinema; tra cui oltre a Giuseppe De Santis collaborarono alla realizzazione del film Mario Alicata e Gianni Puccini .  Tutti e tre i film, sopra riportati, hanno una buona illuminazione e sono girati sia in esterni che in teatri di posa, ma la vera innovazione sta nell’affrontare i  problemi sociali in maniera fortemente reale in contrapposizione con il cinema sponsorizzato da Freddi. Per dare un’ idea dell’ importanza di queste pellicole citerò una celebre esclamazione del figlio del duce ( che ere a capo della rivista di Cinema)  all’uscita di Ossessione,“questa non è l’Italia!” Disse inorridito . Adesso è facile aggiungere che quella non era l´Italia che il regime voleva pubblicizzare, ma bensì quella che di lì alla fine della guerra i nuovi autori studiarono nelle sue infinite sfaccettature cercando di dare, almeno all’inizio un valore fortemente sociale all’operato che si prefiggevano di eseguire.

 1945 Italia anno 0.

Come abbiamo appena visto nel paragrafo precedente certi fenomeni che si vennero a creare nell’immediato dopoguerra, non sono nati dal nulla, anzi alcuni elementi che contraddistinsero il cinema neorealista dell’immediato dopoguerra hanno avuto la loro genesi durante il conflitto bellico e in qualche caso anche prima (soprattutto per quanto riguarda la volontà di spezzare con il passato), ma è ormai opinione condivisa universalmente considerare Roma città aperta di Roberto Rossellini del (1945) l’apristrada di una nuova tendenza che di li a poco divenne famosa in tutto il mondo. La scia di scritti, di studi e anche di polemiche riguardanti l’influenza che essa ha avuto sul panorama mediatico mondiale è ancora un fuoco che non vuole spengersi e che periodicamente viene rialimentato da nuove problematiche inerenti a questo o quel film o a qualche altro oggetto di discussione come appunto la tv verità. Per giustificare questa breve premessa  userò un pensiero di Moravia, che  all’indomani della vittoria (come miglior film straniero) agli oscar di Nuovo cinema paradiso di Giuseppe Tornatore nel (1989),  evidenziò che nel mondo il vero cinema italiano è identificato con il neorealismo e questo non è bene, non bisogna fossilizzarsi . E’ evidente che l’autorevolissimo scrittore tracciava un forte filo conduttore tra un certo cinema del dopoguerra e l’opera di Tornatore, riproponendo il medesimo interrogativo che risuona ormai da quasi cinquanta anni, “Quando finisce il neorealismo?” O se vogliamo “Si può ancora parlare di cinema neorealista?” A queste domande ed altre ancora non intendo trovare una risposta adesso, bensì cercherò di capire che cosa intendessero per realtà i  padri fondatori del movimento dal  periodo che va dal 1945 al 1948, lasciandomi la possibilità di poter oltrepassare questo limite temporale se necessario.
Il neorealismo fu un vasto movimento di idee dalle componenti ibride e dai contorni indistinti , ma sicuramente ci sono delle proprietà che si possono distinguere e accomunare per molti film e per molti registi soprattutto negli anni su cui intendo soffermarmi. L’occhio dei registi e lo sguardo di sceneggiatori come Zavattini e Amidei, si dilata, diventa un occhio che estende i  suoi poteri a 360 gradi per rendere visibili zone d’ombra della realtà che il fascismo aveva ignorato (vedere l’articolo di Barbaro apparso all’ uscita di Ossessione) . Anche grazie alla tragedia della guerra e alle testimonianze che essa porta con se nel corso del tempo Zavattini, padre e guida del movimento mostra come la potenza degli avvenimenti abbia sensibilizzato uno sguardo sulla società e su quello che la circondava fotografando i piccoli dettagli della vita reale come gli infiniti paesaggi culturali che la circondano. Una nuova coscienza sociale convince i protagonisti del movimento, che la realtà è fonte inesauribile di soggetti  che hanno come eroi e protagonisti la gente comune. Zavattini rinforza l’idea sostenendo che ogni momento è indifferentemente ricco; la banalità non esiste . Non sempre la teoria va di pari passo con la pratica, infatti lo stesso Roma città aperta si avvale di attori professionisti come Anna Magnani e Aldo Fabrizi e il decoupage  si mantiene vicino a quello classico, ma evidentemente la stessa affermazione Rosselliniana “ la realtà è la,  perchè manipolarla ” intendeva rendere l’idea dell’impatto che film come Roma città aperta, Paisà (1947) Germania anno 0 (1948) tutte opere dello stesso Rossellini,  Sciuscià(1946) e Ladri di biciclette (1948) ambedue di Vittorio De Sica e La terra Trema (1947) di Luchino Visconti, avevano avuto sul pubblico e sulla critica . Lo stesso teorico Andre Bazin definisce una nuova estetica del cinema reale, contrapponendo il cinema degli anni venti delle avanguardie russe, dove essenzialmente il montaggio dava il senso all’intero film, con il neorealismo Italiano. Bazin afferma che il cinema è la prima soluzione per riprodurre la realtà e che l’unità del racconto cinematografico non è l’inquadratura ma i fatti nudi e crudi. Questo tipo di racconto ha una pluralità di senso perchè il fatto viene sbattuto li, senza la volontà del regista di voler dare un particolare messaggio; il messaggio lo interpreta il pubblico attraverso la realtà .Questo tipo di lavori diventano il mezzo più veloce dell’ Italia, per risollevarsi dalle macerie, dalla povertà morale e per riacquistare dei crediti internazionali che aveva perduto in maniera massiccia. Nel 1946 sulla rivista “Revue du Cinema” iniziano ad apparire articoli inneggianti al nuovo cinema italiano e alla sua capitale: Roma. Il movimento coinvolge tutto il paesaggio nazionale, dalla grande città ai paesini di periferia, dagli operai ai partigiani, tutto diventa protagonista del nuovo mondo che si vuole rappresentare  attraverso il mezzo cinematografico. Quest’ultimo appare al nuovo gruppetto di intellettuali presenti a Roma come “mezzo d’avanguardia del cambiamento”  come afferma Zavattini, il grande teorico del movimento . I nuovi autori scoprono la forza dell’uomo comune del suo linguaggio della sua quotidianità dei suoi nomi che non sono più altisonanti o aristocratici, ma bensì banali come Pina, Pietro, Massimo, Silvana, Adriana e tanti altri che aiutano a dare forza e autenticità ai nuovi protagonisti delle nuove storie di vita vissuta . Il pubblico, la società, nella nuova narrazione filmica diventa protagonista del grande schermo attraverso le grandi tragedie della guerra che tutti hanno vissuto, ma anche con i  racconti che rendono la giornata comune uno spettacolo in cui ci si può rispecchiare. Prima di affrontare nel merito alcuni film che danno luce a questo breve ma intenso momento della storia italiana, vorrei ancora soffermarmi sul fatto che indubbiamente diede libero sfogo alla creatività di molti personaggi che ho citato precedentemente: la liberazione alleata  dai tiranni nazisti. La liberazione in Italia a differenza di altri paesi europei fu vissuta  come una forte rottura ed anche una rinascita, da un periodo che andava ben oltre gli anni della guerra, poichè coinvolgeva tutto il periodo fascista. Da altre parti di Europa come testimonia lo stesso Bazin la resistenza è entrata subito nella leggenda in quanto con la partenza dei soldati Tedeschi la vita Francese ricominciava come qualche tempo prima, mentre in Italia questo passaggio storico significava rivoluzione politica, occupazione alleata, sconvolgimento economico e sociale . In definitiva la liberazione è stata un processo lungo e doloroso. Rossellini, per esempio, ha girato Paisà in un periodo in cui il suo racconto era ancora attuale. Il fatto stesso che il nostro paese da un certo punto di vista rinasca da zero influisce notevolmente su come tutti gli Italiani hanno vissuto la liberazione. Anche il cinema ne ha ovviamente risentito dando alle storie raccontate il profilo di un reportage ricostruito, e quindi anche un valore documentaristico notevole. L’azione non potrebbe svolgersi in un qualsiasi contesto sociale storicamente neutro, in quanto essa è fortemente radicata con tutto il terreno sociale nel quale affonda le sue radici . Questo modo di sentire il cinema e la realtà non apparve in altri paesi, anche perchè la loro storia era differente dalla nostra. Quel  particolare sentimento che  coinvolge una intera nazione difficilmente può essere rivisto in altre situazioni storiche, altrettanto difficile sarebbe ritrovare registi in grado con il loro occhio e la loro sensibilità di catturare il momento di sconforto mescolato alla voglia di ripresa corale dell’epoca. Un esempio concreto di come tutto questo avvenne fin dall’inizio del movimento cinematografico neorealista, lo troviamo nello splendido finale di Roma città aperta. Rossellini ci mostra il gruppo di ragazzi che ha appena assistito alla fucilazione di Don Pietro riprendere sconsolati ma uniti la via Nomentana verso la città. È un cammino pieno di incertezze, ma il sacrificio di Don Pietro diventa una stazione necessaria della via Crucis di un popolo sconfitto per accedere al tempo della pace e della giustizia. Tutte le successive strade visive del cinema italiano partono materialmente e idealmente  a questo campo lungo (anche il cinema di Orson Wells ne è pieno) attraversato da un piccolo coro di figure silenziose, che camminano verso Roma, in  una luminosa mattina di fine estate. In questa scena conclusiva Rossellini, dopo aver creato una congruenza perfetta tra lo sguardo dei ragazzi e quello degli spettatori, mette anche in prospettiva, lungo lo stesso asse visivo, il pubblico, i protagonisti dell’azione e lo spazio urbano. C’é, però, anche da ricordare che la maggiore produzione di pellicole dalla fine della guerra in poi non é neorealista, e che film del movimento che hanno avuto un immediato successo commerciale sono pochi, e questo porta Micciché a sottolineare che “il neorealismo italiano fu fin dall’inizio un episodio ricco di trasgressività, rispetto alle tendenze generali della domanda e offerta filmica, ma produttivamente assai circoscritto e merceologicamente marginale, anche se culturalmente vistoso. La restaurazione moderata centrista (come vedremo in seguito) non fece che accelerare, una certa reazione di rigetto di un mercato, di una società, dove al di là dei parametri esterni, poco era cambiato, che continuava ad amare gli stessi cantastorie le stesse storie che l’avevano deliziata negli anni del fascismo, prima del ciclone della guerra ”. (Questa puntualizzazione è necessaria fin da adesso per non equivocare l’approfondimento che mi presto ad eseguire.)
A conclusione di questo paragrafo che ha cercato di evidenziare alcune linee guida che dal 1945 in poi caratterizzano l’operato di allora, vorrei citare alcuni registi neorealisti, che non prenderò come oggetto di studio ( e non in maniera marginale) nel corso dei paragrafi successivi come De Santis, Lattuada, Zampa, Camerini, Castellani, Vergano e lo stesso Blasetti (che come ricorderete era presente nel paragrafo precedente) in quanto inevitabilmente bisogna fare un’ opera di montaggio anche nel preparare una tesi, ma la loro importanza all’interno del movimento assume una rilevanza notevole attraverso la coabitazione e il fine di intenti che tutti insieme per alcune stagioni perseguono. Ognuno di loro ha un suo stile ma essi attraverso la rivoluzione estetica e di pensiero del dopoguerra hanno contribuito all’ affermazione del  neorealismo in Italia ed all’estero. Mi sento di dover spendere un ulteriore pensiero per Giuseppe De Santis il quale ha rappresentato per la  generazione di critici del primo ‘Cinema’ una continua fonte di ispirazione. Ha collaborato con Visconti alla realizzazione di Ossessione e realizzato la sua prima opera nel 1947 dal titolo Caccia tragica nella quale inizia a sperimentare le idee che aveva promosso durante gli anni trascorsi come critico cinematografico. Il film ambientato in una Romagna dell’immediato dopoguerra, dove i delitti non si contavano in quella torva desolazione, racconta di un folto gruppo di contadini che reagisce a quel marasma impossessandosi di terre abbandonate, e formando una specie di cooperativa per aiutarsi a vicenda. Mentre sta per arrivare una sovvenzione governativa, fatta per incentivare una ripresa economica della zona, il furgone con il denaro viene assalito e derubato da dei banditi. La voce si diffonde subito tra i contadini che cominciano una caccia tragica per recuperare il sovvenzionamento statale. La vicenda é un po’ romanzata e caotica ma di chiara ispirazione neorealista . Il suo stile é fortemente ispirato da alcuni registi Russi come Pudovkin, e la sua regia é forse più adatta a storie epiche, di largo respiro. Con Riso Amaro del 1948 ottiene un clamoroso successo nazionale ed internazionale e sposta l’azione, ancora una volta, dalla città al paesaggio rurale. Esso guarda anche i codici del foto cineromanzo, della cultura popolare, combinando con successo le ragioni produttive con quelle stilistiche .Gli intenti documentaristici e la pretesa dell’oggettività sociologica vengono sovrastati da un gusto per l’intreccio melodrammatico e per la resa spettacolare del paesaggio, dell’erotismo e del folklore. E’ a lui che si deve l’amalgama tra le istanze neorealiste e  i meccanismi di funzionamento dell’apparato cinematografico (divismo cinema di genere ecc.) .  Come osservato da più critici la cinematografia di De Santis anche in seguito porta con se un eclettismo stilistico fuori dal comune. Purtroppo la sua carriera fu stroncata da alcuni insuccessi che nel 1959 lo portarono alla totale inattività. La critica pian piano lo spostò da padre fondatore del neorealismo ad autore di serie b, salvo poi essere recuperato nel corso del tempo da illustri nomi come Brunetta, Lizzani, lo stesso Costa ecc. ecc. La scoperta del paesaggio rurale come protagonista dell’ambientazione  neorealista la si deve proprio a DeSantis e a Visconti, fin dall’inizio degli anni quaranta, e questo particolare non può essere trascurato alla luce di una retrospettiva sul regista di Riso Amaro, come ci ricordano i critici e professori che ho appena citato.

 

Gli uomini del neorealismo

Gli uomini del neorealismo a cui presterò subito attenzione sono gli sceneggiatori. Anche loro dalla fine della guerra in poi si ritrovarono spaesati, e altrettanto angosciati dalla situazione che gli si presentava intorno almeno come i loro concittadini. Ma come detto precedentemente questi sentimenti erano accompagnati da un desiderio di rinascita a nuova vita, ripartendo dalle rovine del presente e dimenticando le bugie del passato. È chiaro che non si poteva recuperare molto dal cinema dell’era fascista, se non qualche opera menzionata nel primo paragrafo e molti testi e proclami che trovarono la loro realizzazione soltanto dopo. La narrativa tradizionale dei film del passato o di quelli Hollywoodiani appariva ormai obsoleta in un clima che prediligeva in maniera totale la realtà, al di sopra di ogni artificio cinematografico. La politica neorealista rifiutava a priori l’idea di un racconto scritto sulla carta, da qui i primi dubbi su come dover lavorare in mezzo a questa nuova idea di cinema. Soggettisti e sceneggiatori dovettero rompere definitivamente con la tradizione che si ispirava al romanzo classico e a l’eredità teatrale, abbracciando nuovi metodi che (aldilà delle ideologie politiche ) volevano carpire le abitudini e i paradossi del popolo Italiano. Il lavoro fu condiviso l’uno a fianco all’altro, comunisti con cattolici (nel giugno del 1946 alle elezioni per l’assemblea costituente risultano vincenti la Democrazia Cristiana e i partiti di sinistra ) per mettersi al servizio dell’ideale comune che tutti si prefiggevano: raccontare il più difficile testo filmico, la realtà. Questo lavoro di artigianato, come lo definì  Amidei a Goffredo Fofi e Franca Faldini nel  1980, implicava una forte umiltà e un forte spirito di adattamento ai mille imprevisti che si potevano incontrare nelle riprese in esterno, con attori spesso non professionisti e in luoghi non sempre facili. Il lavoro di gruppo in  situazioni spesso disagiate creò molte difficoltà nel dover attribuire un soggetto o una sceneggiatura a questo o a quello scrittore. Non mancano certo le eccezioni come lo stesso Amidei o ancor più lo stesso Zavattini, dei quali la critica ha più volte clonato espressioni come ‘effetto Amidei’ o ‘effetto Zavattini’ , ma sicuramente è stato sempre più evidenziato il ruolo del regista-autore e forse sottovalutato la creatività e l’apporto di questi artigiani di bottega. Lo stretto legame tra cronaca e costume é forse il tratto che può accomunare maggiormente queste diverse personalitá, tra cui sono da ricordare oltre a i due precedentemente citati S. Cecchi D´Amico, E. Flaiano. A loro bisogna aggiungere saltuarie collaborazioni di illustri nomi della letteratura come V. Brancati, D.Fabbri, G.Berto, V.Pratolini ecc. ecc.
Ci ricordano, quasi tutti gli studi fatti sul cinema italiano del dopo guerra, che questo presentava più di dieci  autori per film nei titoli di coda, questo essenzialmente per motivi politici, per accontentare i partiti risultati vincenti nel 1946 che indicavano come uno di loro questo o quel personaggio presente nella lista . C’è da evidenziare in questa sede come la voglia di fotografare la realtà contribuì al lavoro comune di molti cineasti che preferirono raccontare la società da un punto di vista il più oggettivo possibile senza lasciarsi trascinare da logiche politiche o ideologiche; anche se in qualche occasione certe tendenze partitiche si possono riscontrare, nessuna di esse oscurò la vera essenza dei film.
Il ritratto che veniva dato dell’Italia non piaceva a un certo tipo di critica, che preferiva non pubblicizzare il vero stato delle cose cercando di oscurarlo sponsorizzando opere che non si scontrassero con il comune senso del pudore. La parte cattolica contestava il modo in cui si raccontava la vita privata e sessuale del cittadino medio, gridando allo scandalo ogni volta che la realtà si imbatteva con la morale cristiana. C’era anche una  spruzzata di anticlericalismo che non favoriva certo i rapporti interpersonali tra registi-sceneggiatori e i critici di questa estrazione. La parte dei contestatori che invece si ispirava a ideali comunisti attaccava certe opere per il loro pessimismo e per una mancata ed esplicita fede politica. Da sommare a questo tipo di situazione c’era sia la volontà dei politici di voler far apparire l’Italia come un paese in piena crescita che si stava velocemente riprendendo economicamente e socialmente e sia l’ avanzata dei film americani che spopolavano tra il pubblico europeo e particolarmente tra quello italiano. A causa di tutto questo è facile capire come fosse difficoltosa la situazione in cui si dovevano muovere sceneggiatori e registi dell’epoca. Nel 1949 il sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti trovò il modo di frenare l’avanzata dei film americani frenando allo stesso tempo gli imbarazzanti eccessi del neorealismo. La ‘legge Andreotti’ fissò i limiti alle importazioni e quote sugli schermi, ma pose anche le basi per fornire prestiti alle case di produzione. Per concedere prestiti, tuttavia, una commissione statale doveva approvare la sceneggiatura, e i film privi di un punto vista politico erano premiati con somme maggiori. Ancor peggio , a un film poteva essere negata la licenza di esportazione se diffamava l’Italia. Con questa legge si era creata un censura preventiva .
Gli uomini del neorealismo furono costretti come appena ricordato a far fronte a problemi plurimi, che comunque almeno nei primi quattro cinque anni di vita del movimento non frenarono le idee che alimentavano questi pionieri della realtà del dopoguerra. Ma chi erano veramente queste persone? Dove si erano formati? Perchè proprio loro furono i protagonisti di questa rivoluzione estetica? In parte forse abbiamo già accennato delle risposte nelle riflessioni precedenti, ma adesso vorrei cercare di spiegare in maniera più analitica certi personaggi e alcune delle loro opere che riguardano l’oggetto di studio in questione. Non esistendo un manifesto neorealista su cui si tracciano i punti su cui si basa il movimento, ma soltanto una continua e ripetuta volontà di cambiamento che aleggiava nell’aria, sarà ancora più importante prendere in considerazione di volta in volta gli autori e le opere che hanno ispirato maggiormente i cinefili di tutto il mondo nel corso di più di cinquanta anni. Comincierò con colui che a più riprese ho già citato durante questo studio: Roberto Rossellini.            
La scelta non é casuale in quanto sia per motivi cronologici sia per motivi estetici le opere Rosselliniane rappresentano un vero e proprio spartiacque con il cinema precedente. Seguirá uno sguardo alla coppia  Vittorio De Sica - Cesare Zavattini che hanno insieme firmato dei capolavori che spostano il neorealismo dalla  crudezza della guerra alle difficoltà della vita quotidiana del post-conflitto. Non potrei, in fine, trascurare l’apporto che ha avuto indiscutibilmente Luchino Visconti attraverso le sue idee e i suoi lavori nella divulgazione della nuova poetica che si stava sviluppando. Ognuno di loro ha una storia diversa e una carriera che spesso soltanto in quei tre quattro anni possiamo accomunare da un filo conduttore che gli ha resi i maggiori divulgatori del neorealismo nel mondo. Come ha giustamente sottolineato Carlo Lizzani, questi uomini fanno emergere un universo di umili che emoziona tutto il mondo, perché ripropone una proporzione umana che le dittature e la guerra avevano disperso non soltanto da noi. Ciò che il neorealismo dava era per tutti (per tutto il mondo) l’altra faccia della medaglia. Il ritorno dell’uomo di strada, era una proposta di mani tese tra le maglie dei sipari di ferro che calavano ovunque.        

David Bordwell – Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., Vol.2, p.80

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Bari, Laterza, 2001, Vol.2, p.5

David Bordwell – Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., vol.2, p.80

David Bordwell – Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., vol.1, p.380

Ibidem.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, cit., vol.1, pp. 248-249

David Bordwell-Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., vol.1, p.382

Ibidem.

David Bordwell-Kristina Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., vol.1, p.383

Ibidem.

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.1, p.236

Gian Carlo Ferretti, Introduzione al neorealismo, Roma, editori riuniti, 1974.

David Bordwell-Kristin Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., vol.1, p.383

A cura di Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia, Marsilio editori, 1978

A cura di Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, cit.

Associazione amici di Vittorio De Sica, Vittorio De Sica, Roma, Pantheon, 1998, parte prima

A cura di Lino Miccichè, ,Il neorealismo cinematografico italiano, cit.

A cura di Rosa Brambilla, Il neorealismo nella letteratura e nel cinema italiano, Assisi, pro civitate christiana, 1990.

A cura di Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, cit.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, cit., vol.1, p.266

Lino Miccichè, Visconti e il neorealismo, Venezia, saggi Marsilio, 1990, Prima parte.

David Bordwell-Kristina Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., vol.2, p.82

La citazione è tratta dagli appunti redatti durante le lezioni di Storia del cinema 1, del professore Antonio Costa, Università degli studi di Bologna, anno accademico 1999- 2000.

Gian Carlo Ferretti, Introduzione al neorealismo, cit.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, cit., vol.2, p.24

Antonio Costa, Saper vedere il cinema, Bergamo, strumenti Bompiani, 1998, p.96

Ibidem.

André Bazin, Che cosa è il cinema?, Bologna, Garzanti editore, 2000.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, cit., p.25

Ibidem, p.27

André Bazin, Che cosa è il cinema?, cit., p.279

Ibidem.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, cit., vol.2, p.29

A cura di Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, cit.

Carlo Bestetti, Cinquanta anni di cinema italiano, Roma, edizioni d’arte, anno.

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, cit., vol.2, p.94

Antonio Costa, Saper vedere il cinema, cit.,p.102

David Bordwell-Kristina Thompson, Storia del cinema e dei film, cit., vol.2, p.81

Gian Piero Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, cit., vol.2, p.53

Ibidem.

André Bazin,, op. Cit., p.292

David Bordwell-Kristina Thompson, op. cit.,Vol.2, p.83

A cura di Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, cit.

 

Roberto Rossellini.

“Che poi proprio intorno ad una rivista firmata da un Mussolini si ritrovassero i giovani cineasti più aperti al nuovo e tutti con la tessera comunista nascosta tra i libri, può sorprendere solo uno straniero. Così come resta un segreto nostro, tutto italiano e soltanto a noi comprensibile, che sia toccato ad un uomo che si era fatto le ossa lavorando a film di propaganda fascista, girare il film che avrebbe dato inizio alla straordinaria storia del neorealismo italiano: a Roberto Rossellini” .   
Con queste parole lo sceneggiatore Ugo Pirro rivela tutta la sua ammirazione e meraviglia nell’identificare Rossellini come l’artefice della rinascita del cinema italiano, sottolineando anche i suoi trascorsi fascisti, almeno per quanto riguarda il cinema. Anche queste esperienze di cinema di propaganda però(come sottolineato all’inizio di questo capitolo) iniziano a sperimentare timidamente un metodo che trovò la sua consacrazione con Roma città aperta, Paisà e Germania anno zero. Rossellini esce dai teatri di posa per andare in strada e raccontare avvenimenti appena accaduti avvalendosi di attori come Anna Magnani e Aldo Fabrizi mescolati con i protagonisti della realtà  appena vissuta. La repressione nazista e la liberazione alleata sono lo sfondo in cui si svolgono i sei episodi di Paisà, film nitido e sincero privo di spettacolarità che approfondisce il lavoro di documentazione iniziato con Roma città aperta e terminato con Germania anno zero. Rossellini dice “Non c’é che un modo per collocare la macchina da presa, il più semplice il più a portata di mano” . La trilogia qui citata rappresenta un contributo essenziale alla rivoluzione del linguaggio cinematografico a cui Rossellini contribuì in maniera determinante.
Rossellini era assolutamente antispettacolare la sua regia era diretta e immediata ed evitava in maniera chirurgica scene che si potessero porre come chiave risolutiva della storia. Egli stesso dichiarò “Se per errore mi capita di girare una inquadratura bella, la taglio. ” Il suo stile diretto corrispondeva nella sua fede decisa in valori elementari e facilmente riscontrabili attraverso le sue opere neorealiste, ma anche in quelle del periodo successivo. La sua passione per la narrazione episodica, per le ellissi e i finali aperti spesso permette ai film di evocare più di quanto non ci si aspetterebbe dai loro temi dichiarati. A paragone con l’eleganza di altri registi suoi coetanei (in particolare Luchino Visconti) lo stile di Rossellini sembra sgraziato, ma anche la sue soluzioni più semplici producono in merito, risultati complessi. La sua biografia é ricca di episodi che mescolano la realtà con la leggenda, lasciando molte perplessità per chi vuol tracciare un profilo ben definito della sua personalità. Rossellini non ha mai preteso di assumere il ruolo di guida carismatica del cinema italiano ma di fatto il suo lavoro ha prodotto uno sciame di proseliti che va ben al di là dei confini nazionali. Il suo stile probabilmente é nato a causa della forza degli eventi ma egli ha saputo far carpire le sue sperimentazioni in maniera totale ai fruitori dei suoi film. La sua vita privata si svolge all’insegna delle più variegate esperienze che lo hanno posto anche al centro delle cronache rosa di tutto il mondo. Evidentemente il suo carisma riusciva ad evadere qualsiasi tipo di confine tanto che Fellini aveva riconosciuto in lui una specie di progenitore da cui tutte le generazioni successive del cinema italiano discendevano . Rossellini é stato il regista italiano più capace di proiettarsi in avanti, il profeta visionaro di nuove ere dell’immagine, oltre che guida inattesa della rinascita del cinema italiano. Probabilmente  non fu facile per molti intellettuali di allora accogliere come nuova guida spirituale un regista epurato, se pur brevemente, dai suoi trascorsi fascisti.  Indubbiamente i suoi primi successi internazionali, il suo nuovo modo di raccontare le storie della gente, suscitò grande scalpore anche sulla critica più refrattaria che prese atto dei nuovi metodi di narrazione e rappresentazione cinematografica da lui sperimentati.  
Nel 1945 esce Roma città aperta, che racconta la lotta per la liberazione all’interno delle case, nelle strade e nelle piazze. Questa fu anche il più cult dei cult movie, dunque il racconto  dei protagonisti veri o presunti, a finito per sovrapporre alla realtà dei fatti uno strato di aneddoti e di leggende . Dopo la liberazione il cinema italiano visse una breve stagione eroica, durante la quale alcuni film si prestarono anche alla proliferazione storie al limite del credibile . Si racconta che la vicenda di Roma città aperta sia tratta da un assassinio veramente accaduto ai danni di un prete che si batteva contro i nazisti. Amidei sceneggiatore del lungometraggio e comunista militante non accettava di inserire un unico personaggio, per di più cattolico, all’interno della storia. Nacquero così varie figure partigiane (che analizzerò in seguito) che dovevano inserirsi all’interno di altri episodi distinti. Così non fu, tutto si riversò all’interno di una unico racconto che prese il nome di Roma città aperta, in maniera singolare, e cioè: Amidei pensò al titolo città aperta, ma il produttore voleva inserire per forza il nome di Roma. Uscì fuori così uno dei titoli più famosi della storia del cinema. Ma vediamo ora di analizzare la pellicola in maniera più dettagliata e limitandoci ai fatti e lasciando perdere le varie leggende. Protagonisti della vicenda diventa lo stesso pubblico che si rivede nelle azioni e nella vita di Manfredi (giovane partigiano) il suo amico Francesco, Don Pietro (prete  cattolico partigiano interpretato da Aldo Fabrizi) e la sora Pina (altra partigiana interpretata da Anna Magnani). Tutti loro sono coinvolti nella battaglia contro le truppe tedesche che occupano la capitale italiana; la fiducia e il sacrificio personale legano strettamente i personaggi tra di loro, senza nessun tipo di remore. Lo stile dell’azione cambia sensibilmente dal cinema precedente non é più lineare come prima. Certi personaggi che appaiono come protagonisti spariscono durante il film e non se ne sa più nulla come per esempio quando Francesco sfugge dai nazisti e lo spettatore perde le sue tracce. Nella scena in cui viene uccisa la sora Pina non viene inquadrato il suo assassino ma soltanto udiamo una raffica di spari e attraverso la soggettiva di Francesco (che era portato via dai nazisti) notiamo la Pina accasciarsi per terra. La morte di quest’ultima rimarrà come le più alte testimonianze della lotta di resistenza perché mostra come vi sia un punto in cui l’individuo non possa più accettare di perdere la ragione del vivere per difendere la vita. All’indomani della liberazione il film si presenta come la prima opera capace di rappresentare l’aspirazione di una intera nazione a ripartire verso un nuovo e diverso futuro. Con una sola inquadratura, un solo movimento di macchina una sola battuta e un solo sguardo, Rossellini fa dei suoi personaggi, metodicamente, i portavoce e i testimoni di una epopea dolente. Tuttavia il film non è privo di eredità provenienti dal melodramma classico e la storia si svolge in alcune parti ancora con successioni causa-effetto e con scene ironiche come quando Don Pietro nasconde le armi partigiane nel letto di un infermo, pochi momenti prima l´assassinio della sora Pina. L´anteprima del film al festival di Luino suscita pareri contrastanti tra il pubblico di critici che inizialmente stenta a vedere nella storia raccontata, una svolta epocale che di lì a poco avrebbe cambiato il modo di intendere e di saper vedere il cinema. Tra i più sensibili alla nuova opera fu Carlo Lizzani il quale vide in Roma città aperta un qualcosa che riguardava direttamente l’Italia e i suoi cittadini . Molto più entusiasmanti furono le prime proiezioni in America della pellicola che venne vissuta come una ritrovata nobiltà che l’Italia aveva perduto sotto Mussolini .Probabilmente nel 1945 non tutti erano pronti ad accettare un cambiamento così radicale, e oltretutto da parte di un regista che aveva dei trascorsi abbastanza dubbi in chiave politica, ma questo fu presto superato dall’eccezionalità dell’evento. Scrive Aprà  “Roma città aperta, peraltro ancora innestato nei residui di una finzione classica, ci dà memoria reale di qualcosa che non abbiamo vissuto: le nuove generazioni ricordano la guerra perchè hanno vissuto Roma città aperta”. Di questo film potremmo elogiare la forza il coraggio e l’inventiva, ma sicuramente la cosa che colpisce qualsiasi spettatore è la brutalità del reale che il grande schermo gli stà riversando addosso senza possibilità di equivoco.
Lo stesso Rossellini è autore di un opera come Paisà, realizzata appena un anno dopo l’uscita della  precedente pellicola appena visionata. Questo nuovo lavoro si compone di sei episodi, isolati l’uno dall’altro se non per un ordine cronologico riguardante la risalita degli alleati dalla Sicilia fino al nord Italia passando per Napoli, Roma, Firenze e l’Appennino emiliano. La produzione del film è abbastanza povera (come del resto tutte le produzioni di quella stagione) ma il regista riesce in maniera pragmatica a trovare i mezzi per partire con il nuovo lavoro che toccherà i paralleli più importanti d’Italia descrivendo in maniera documentaristica i fatti appena vissuti dal popolo, che si improvvisa interprete della sua vita per il grande schermo. Nello stesso tempo Rossellini riesce ad avvalersi della collaborazione dell’esercito americano, il quale autorizza alcuni dei propri soldati alla partecipazione della nuova opera, sapendo quanto importante possa essere una  buona pubblicità per l’esercito statunitense. Il percorso multiplo di liberazione porta Rossellini alla scoperta dell’Italia in molte  delle sue sfaccettature sia paesaggistiche sia cultural linguistiche e anche questo  apporta qualcosa di diverso rispetto al precedente Roma città aperta, qualcosa di ancora più comune a tutto il Paese. Paisà è forse il film (insieme a Ladri di biciclette ma per ragioni diverse) che per stile ed immediatezza delle immagini raggiunge  nella maniera più netta le molteplici invocazioni che si prefiguravano una nuova presenza della realtà al cinema. Bazin fu un grande estimatore di questa pellicola tanto da considerarla la  più rappresentativa della nuova stagione italiana, motivando questa scelta attraverso un accurato saggio che spiega, come il fondatore dei ‘Cahiers du Cinema’ è arrivato a questa conclusione, ricordando che molte osservazioni valgono per molte delle opere neorealiste . Il critico francese traccia un forte parallelismo tra il realismo della letteratura di Haminway,  Faulkner, Saroyan con il racconto episodico di Roberto Rossellini, evidenziando fin dall’inizio che lo stile si identifica quasi totalmente con la tecnica del racconto che diventa la dinamica interna ad essa sia per il film sia per i lavori degli scrittori appena citati. Tre dei sei episodi presenti nel film si riallacciano direttamente alla resistenza, mentre gli altri descrivono situazioni ai margini della società . Il lavoro nero, gli scippi, la prostituzione, forniscono il materiale per le riprese. La diversità delle storie qui citate viene superato grazie allo sfondo sociale, storico ed umano che conferisce loro un unità del tutto sufficiente per farne un opera perfettamente omogenea nella sua diversità. Ancora Bazin aggiunge che la durata e lo stile danno l’impressione di una novella tratta dalla letteratura americana. L’episodio di Napoli in cui vediamo un bambino specialista del mercato nero vendere i vestiti di un  ubriaco può essere ricondotto ad una idea di Sorayan. L’abilità del regista nel far risaltare i fatti, ai personaggi ripresi dalla cinepresa è uno dei grandi pregi di Paisà. Nell’ultimo episodio (ci suggerisce ancora Bazin) un gruppo di partigiani e soldati alleati sono sfamati con delle anguille che una  famiglia  della pianura padana gli regala. I nazisti vengono a conoscenza dell’accaduto e sterminano la piccola comunità di pescatori che aveva collaborato con la resistenza, avendo sfamato alcuni di essi. Un ufficiale americano e un partigiano odono uno sparo e attraverso un dialogo serrato capiscono che la famiglia misericordiosa è stata giustiziata. I soldati alleati (si presume perchè Rossellini non ci dà la sicurezza che questa scena abbia dei testimoni.) trovano uomini e donne morti nel luogo del rastrellamento, nel mezzo un bambino vivo che piange. Il regista risolve questa delicata sequenza con una apparente lacuna centrale che non dà fluidità alle azioni appena descritte. Non esiste una volontà di presentare al pubblico un punto di vista soggettivo da cui poter guardare l’azione, anzi la pellicola (come l’esempio appena citato) ci rimanda dei fatti e lascia una libera interpretazione del perchè è accaduto quel particolare avvenimento. I fatti sono i fatti, la nostra immaginazione gli utilizza, ma essi non hanno come funzione a priori di servirla. Del resto nessun cineasta può mostrare tutto ma di solito le sue scelte sono atte a ricostruire un processo logico di causa effetto. Rossellini non è del tutto immune a questo procedimento ma assolutamente predilige presentare la realtà delle cose senza dare agli spettatori una guida forte su come interpretarla. Con questo procedimento  la cinepresa è diventata tutt’uno con l’occhio e la mano che la guidano . Nell’episodio di Firenze una donna traversa la città ancora preda di truppe nazifasciste per cercare l’uomo amato. Insieme a lei un padre che cerca il proprio figlio e sua moglie. In questa sequenza Rossellini non identifica mai l’occhio dello spettatore con quello della donna ma bensì, si fa largo in mezzo alla folla di persone, che sono accomunate da stessi dolori ed emozioni, mettendo in risalto tutto lo sfondo sociale su cui agisce la presunta protagonista, mescolando l’esperienze dell’una con quelle di tutti gli altri. Esiste una imparzialità nel raccontare la storia che raggiunge il suo apice quando la donna percepisce casualmente da una conversazione tra le tante che il suo fidanzato è morto. Questo procedimento rende ancora più toccante la vicenda rendendola ancora più suggestiva al pubblico . Conclude Bazin che “l’unità del racconto cinematografico in Paisà non è l’inquadratura, punto di vista astratto sulla realtà che si analizza, ma il fatto. Frammento di realtà bruta, in se stesso multiplo ed equivoco, il cui senso viene fuori a posteriori  grazie ad altri fatti tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti. ”Un ultimo plauso va all’operatore della pellicola che in particolare nell’ultimo episodio, dove i partigiani sono accerchiati nella palude, sa rendere alla sua macchina da presa sottigliezze espressive difficilmente riscontrabili nel cinema fatto in esterni. Il panorama in cui si svolge l’azione diventa protagonista insieme alle persone presenti in scena, assumendo un valore drammatico ineccepibile. L’orizzonte sempre fermo tra cielo ed acqua è la dimostrazione dell’abilità dell’operatore che si adatta e rende un gran servizio alla regia .      
Paisà  trova un consenso unanime un poco in tutti i paesi in cui viene proiettato dando prestigio al suo regista e alla resistenza italiana, ma soprattutto apporta un nuovo modo di raccontare le esperienze della gente comune.   
Il terzo film Rosselliniano che prende in considerazioni le mille varianti che la guerra porta con se è Germania anno zero (1948). La trama è ambientata in una Berlino semidistrutta che presenta una desolazione ricoperta da un panorama spettrale. E proprio gli spettri del passato ritornano nella esperienza del regista che concepisce questa storia ambigua ed agghiacciante che porta con se non pochi interrogativi. Germania anno zero testimonia la realtà del popolo tedesco nel 1947 attraverso la storia di un bambino di nome Edmund,  adescato da un falso maestro che lo imbeve di retorica nazista fino a fargli uccidere il padre infermo. Il suicidio finale del protagonista coglie l’essenza  della morte ambientata in un clima di rovine. La scena finale è una ripresa continua di più di dieci minuti che segue Edmund girovagare per le macerie di una città fantasma che appare come indifferente alla vita, a cui il bambino cerca un ultimo disperato appiglio prima del gesto finale che lo porta ad uccidersi gettandosi da un palazzo ridotto a un ammasso di macerie. Con questa opera Rossellini si congeda dal periodo della trilogia della guerra, in maniera altisonante creando intorno a se un clima di incertezza e perplessità. Lo stesso regista dichiara che il film contiene un messaggio di speranza, che si può dedurre dall’abbigliamento di Edmund che muore con una camicia bianca, forse il simbolo di un sacrificio estremo per seppellire le false dottrine del passato che portano solo morte  e tragedie. Senza dubbio è il finale più disperato del cinema italiano del dopoguerra ed è in controtendenza con lo spirito che aleggiava in quel periodo storico. Sostiene Brunetta, che “se con Roma città aperta Rossellini aveva saputo dare forma epica ad un insieme di forze, desideri e tensioni, con Germania anno zero il regista per gli stessi desideri e speranze compone una definitiva e solenne Messa da requiem ”. Certo è che la pellicola riporta prepotentemente alla ribalta un degrado morale che forse non era del tutto scomparso o che stava riaffiorando nelle coscienze della gente e probabilmente anche in quelle dell’ autore. La figura del padre malato in contrapposizione con quella del falso maestro mette in discussione l’amore di un figlio verso il proprio genitore, forse l’amore di un popolo verso la propria patria, che si trova li inferma e delirante a causa di una falsa dottrina, di un falso maestro che la resa sanguinante davanti ai propri figli. Probabilmente il messaggio di speranza al quale si riferiva Rossellini è da ricondurre ad una interpretazione non molto dissimile a questa, e probabilmente il giovane Edmund da assassino del proprio padre, che oltretutto è infermo, diventa il simbolo della fine di un epoca contraddistinta da falsi predicatori e ingenui proseliti.
Da questo momento in poi il padre fondatore del neorealismo italiano si discosta dalle tre opere  che ho qui descritto, cercando nuove sperimentazioni che già nel 1948 lo portano ad lavorare su pellicole che fanno parte di un altro periodo della vita del maestro e della guida (anche se mai rivendicata ) del cinema italiano. La crisi personale in cui si imbatte da questo momento in poi e che  probabilmente lo aveva già colpito durante la realizzazione di Germania anno zero  lo porta a scavare all’ interno della psiche umana dando forti contributi in merito ai temi da lui affrontati . Per quanto riguarda questo studio la trilogia della guerra ci può dare un sensibile aiuto per capire perchè e come si è cercato di scrutare la realtà in un momento storico del tutto particolare e pieno di contraddizioni. Il valore importante, dell`operato Rosselliniano a mio parere sta anche nel saper mischiare temi straordinari come la liberazione, la guerra e la devastazione del paesaggio con temi ordinari come il mercato nero, la prostituzione, la povertà ecc.ecc. Il regista racconta i fatti, come abbiamo precedentemente visto, ma senza dubbio gli sa ben scegliere.            
 

 Vittorio de Sica- Cesare Zavattini

La coppia De Sica Zavattini rappresenta per il cinema un connubio di idee e di talenti che ha alimentato per almeno venti anni il grande schermo nazionale ed internazionale. Quello che sorprende dei due cineasti è la loro naturale predisposizione nel cogliere la realtà nella sua interezza e renderla appetibile al grande pubblico. Zavattini è stato e sarà probabilmente l’uomo più citato e commentato tra i personaggi che cercarono di sperimentare un tipo di linguaggio che fosse il più vicino possibile alla realtà. Zavattini voleva un cinema che presentasse il dramma nascosto negli eventi quotidiani, come l’acquisto di un paio di scarpe o la ricerca di un appartamanto. Un produttore americano disse a Zavattini che un film di Hollywood avrebbe mostrato un aereo che passa nel cielo, poi una mitragliatrice che fa fuoco, quindi l’aereo che cadeva, mentre un film neorealista avrebbe mostrato l’aereo che passava una volta, poi un’altra e poi ancora un’altra. Zavattini replicò: non basta farlo passare tre volte; deve passare venti volte. La provocazione era tutta volta ad invocare un cinema de-drammatizzato e più diretto. Altresì la personalità di De Sica non era affatto da meno di quella del suo illustre compagno di lavoro. De Sica fra guerra e dopo guerra ci offre uno spaccato di mondo  del tutto diverso dal cinema fascista, grazie alla sua predisposizione nel saper guardare e con, I bambini ci guardano, offre uno spaccato sulla gente qualunque. Il procedimento usato da De Sica in seguito, con Sciuscà, Ladri di biciclette e Umberto D, svela e ingrandisce un dato del sociale. Opere segnate dalla disfatta e dalla lenta ricostruzione, con tutti i problemi del dopoguerra. Zavattini e De Sica fermano e rappresentano con gli occhi della cinepresa un immagine autentica e coinvolgente per la sua nudità, della società italiana fra guerra e dopoguerra. La guerra contribuì sicuramente ad amplificare le potenzialità della coppia che sensibilizzarono notevolmente le loro attitudini nei confronti del cinema. Zavattini si mise a capo del movimento e fu il più loquace dei cineasti dell’epoca portando le sue idee al servizio della maggior parte degli autori del periodo. Ma è con De Sica che trova il suo compagno ideale e con Sciuscià intensifica un lavoro di osservazione della realtà che lo porta a considerare il gesto minimo come struttura fondamentale per  la comprensione dell’individuo e la comunicazione dell’individuo. Nello stesso momento De Sica accentua la naturale disposizione a osservare il comportamento umano con lucidità e trasporto, fino a toccare l’animo di molti spettatori. Ancora con Sciuscià la coppia rievidenzia l’osservazione del mondo infantile (I bambini ci guardano) puntando il dito in maniera netta alla denuncia  civile. Carlo Lizzani dichiarò che “Erano appena passati tre o quattro anni, (ma che anni!), da quando sulle colonne di Cinema e dei giornali giovanili, si erano manifestasti i primi consensi ad un attore-regista che pur radicato nel cinema tradizionale aveva cominciato a corroderne l’interno, (I bambini ci guardano) l’involucro paralizzante e a metterne in crisi i codici più consunti. Il successo di Sciuscià fu una conferma di una grande premessa.   Il soggetto del film scaturì da una idea di De Sica che aveva a lungo osservato i piccoli lustrascarpe davanti all’ambasciata americana in Via Veneto. Questa precoce maturità dovuta alle circostanze (spesso i giovani erano senza genitori e dovevano supportarsi con le proprie forze) non impediva loro di togliersi il gusto di prendere a nolo un cavallo al galoppattoio di Villa Borghese. Come nelle migliori opere del periodo, la vicenda non si distanzia mai dal contesto sociale ( fatto di povertà e disperazione ) dove vivono e lavorano i due protagonisti Pasquale e Giuseppe, i quali vengono interpretati da ragazzi presi dalla strada. La storia di questi due lustrascarpe che acquistano con i loro risparmi, un cavallo bianco per fuggire, se non fisicamente almeno mentalmente, alla triste realtà che gli circonda, innesca un meccanismo di speranza utopico ma consolatore, l’arresto (conseguenza di atti malavitosi al fine di ottenere i soldi per il cavallo) e il carceramento testimonia l’impossibilità di raggiungere il sogno. “Il cavallo diventa il mezzo per arrivare ad uno spazio nel quale non si affermi unicamente la legge dell’occhio per occhio. ” Il film evidenzia lo stato delle carcere minorili che invece di rieducare i giovani detenuti gli infliggono ulteriori ferite morali che sono irreparabili. La macchina da presa del regista sembra, per la sua naturalezza, un organo aggiunto ai cinque sensi e tutta la storia è girata senza particolari riguardi alla sintassi e grammatica cinematografica creando una ruvida atmosfera per tutto il lungometraggio. La sceneggiatura infine, non sembra affatto sottomessa a una necessità drammatica rigorosa e il film termina su una situazione che avrebbe potuto benissimo non essere l’ultima . Alla prima proiezione privata del 1946 Antonio Pietrangeli dichiarò “Per la violenza e la vastitá della tragedia che vi si riflette e che non é la tragedia di un singolo, ma propria di una società, per la persuasività autorevole e insieme struggente delle immagini, per l’alta forza di suggestione dei suoi personaggi, per l’eloquenza mai intaccata dalla retorica, con cui sa consegnare agli spettatori la sua appassionata condanna; questo dolorante film che De Sica ha creato, merita di essere annoverato tra i prodotti più acuti e riusciti della cinematografia italiana” .  Nel 1948 uscì nelle sale Ladri di biciclette il quale certifica il talento dei suoi autori e rappresenta tuttora oggi, forse uno dei film più belli di tutti i tempi (sul quale ci tornerò tra poco.) Nel 1951, Miracolo a Milano è una favola che strizza l’occhio alla critica sociale e evidenzia l’impossibilità per i poveri gli emarginati e i  reietti di soddisfare i propri bisogni elementari. Il film fu il tributo di De Sica al mondo Zavattiniano; si compie un gesto di coraggio rispetto al passato. Se per Ladri di biciclette (come vedremo tra poco) il linguaggio neorealista si proponeva di descrivere la realtà quotidiana venata di poesia, qui il procedimento appare il contrario: una favola moderna costellata di allusioni al mondo reale . La sceneggiatura scritta ancor prima della caduta del fascismo assume un valore ancora più sottile ma egualmente forte anche all’inizio degli anni cinquanta. La decisione finale di alcuni dei protagonisti del tessuto sociale descritto dalla pellicola, di partire a cavallo di una scopa per un mondo dove “buongiorno vuol dire davvero buongiorno”, assume il significato di sconfitta ideologica,  ma senza essere un resa . Con Umberto D (1952) la coppia De Sica Zavattini torna  direttamente a l’esplorazione del reale e del quotidiano. Infatti il film nacque dalla notizia apparsa su un giornale, del suicidio di un vecchio di settanta anni vinto dal dramma della solitudine. La pellicola fu realizzata con l’intento di descrivere la solitudine degli anziani rappresentandoli con i loro caratteri . La vicenda del protagonista costretto alla sopravvivenza con una misera pensione, soltanto per la sua normalità, provoca un forte rigetto nei fruitori del film, sia da parte della classe politica (si veda  la famosa lettera di Andreotti nei confronti del regista) sia da parte del pubblico che forse provava una sensazione di imbarazzo nei confronti di tanta normalità che assume sfumature mostruose nell’analisi in cui viene presentata. La narrazione lineare che segue e scompone le azioni elementari sfiora una percezione di reale che è difficile se non impossibile raggiungere. Umberto D ancora è fortemente permeato su principi neorealisti, e per questo citato in questo studio. L’interpretazione del professor Carlo Battisti evita i canoni del vero attore rendendo il personaggio credibilissimo anzi cancella l’idea di una intermediazione tra lo spettatore e la realtà che gli si presenta sul grande schermo . Anche se questi due ultimi lavori non fanno cronologicamente parte del periodo su cui mi sono concentrato sono estremamente simili ai precedenti per quanto riguarda la volontà di evidenziare la società e suoi lati oscuri, che né la politica e né il giornalismo trattano in maniera adeguata perchè non fanno notizia. Uno sguardo più approfondito alla storia e al modo in cui viene raccontata mi sento di farlo per Ladri di biciclette. L’azione si svolge nella Roma del secondo dopo guerra e racconta di un ex-disoccupato che è appena stato assunto come appenditore di manifesti. Il requisito necessario per questo lavoro è possedere una bicicletta. Il protagonista (Ricci) aiutato dalla moglie impegna le lenzuola di casa, per riscattare una vecchia bicicletta che già il primo giorno gli viene rubata. La svolgimento del film è incentrato su lui che cerca insieme al figlio (Bruno) di ritrovare il mezzo che gli può dare una vita un poco più decorosa. Egli cerca aiuto prima dai carabinieri, poi al sindacato lavoratori, in chiesa e infine la cerca  insieme a Bruno per mezza città. Dopo un girovagare continuo e privo di risultati egli stesso proverà a rubare un bicicletta, ma verrà subito fermato, umiliato ma poi rilasciato. Il film si conclude con padre e figlio che si allontanano dalla scena. La storia non ha nessun tipo di rilevanza giornalistica e anche sindacalmente non ci sono le basi per nessun tipo di iniziativa. L’opera svela la vera fotografia di  Roma al mondo, adopreando attori presi dalla strada, con riprese in esterno e con una narrazione che lascia spazio alla casualità e non alla causa effetto. In un momento dove forse si cominciava a mormorare di un declino del neorealismo che stava perdendo la sua forza dopo i Paisà e i Roma città aperta  a causa dell’avvento di alcuni film che non possedevano quella stessa originalità, De Sica e Zavattini riescono a fare un film neorealista a tutti gli effetti evitando le vicende della guerra e evidenziando il dramma di una intera classe sociale non in maniera diretta ma facendolo trasparire attraverso questa disperata ricerca in mezzo alla capitale. Il messaggio che si può facilmente dedurre, ma che non viene mai urlato, è “che nel mondo in cui vive questo operaio, i poveri per sussistere devono derubarsi tra loro. ” È evidente che certe deduzioni non potevano piacere ai politici, in quanto davano un’immagine disastrosa dell’Italia e degli italiani. Andreotti in procinto di fissare un accordo con le grandi case di produzioni americane che dovevano rinvestire parte dei propri guadagni cinematografici sul territorio nazionale contestò molto il film ripudiando i suoi autori. Perchè tutta questa grande preoccupazione per un piccolo scippo? Poichè il panorama in cui si svolge la disavventura di Ricci dà senso alla vicenda, lo spettro della disoccupazione e della povertà che  aleggiava nel futuro degli operai italiani alla fine degli anni quaranta era per molti una tragedia che poteva colpire chiunque anche per una semplice disavventura. La cronologia accidentale della pellicola tratta i fatti presentati nella loro interezza fenomenica. Per esempio quando Bruno nel bel mezzo di un inseguimento si ferma per fare pipì, o la sosta forzata sotto un portone di Ricci e figlio a causa di un improvviso acquazzone. Tutto è lasciato al caso al destino o alla sfortuna, senza accentuare nessun concetto ma lasciando i due inseguitori nelle mani di un fato che superficialmente sembra contro, ma essenzialmente è l’unico possibile in quel sistema sociale. Qui sta l’abilità degli autori, che grazie al concatenamento degli avvenimenti che sono sempre verosimili e aneddotici, si limitano a mostrarci che l’operaio può non ritrovare la sua bicicletta e che perciò tornerà senza dubbio ad essere disoccupato. Gli eventi non sono mai sollecitati verso una tesi sociale, ma  è lo spirito dello spettatore  che salta di evento in evento, costruendola dentro di se . Come accadeva per Roma città aperta e per Paisà questo tipo di linguaggio viene ripreso da Zavattini e De Sica per proporre quell’oggettivismo anche al di fuori di temi come la guerra e la resistenza. Oltre a questo, il film presenta un dramma morale psicologico senza precedenti. Il ruolo del bambino che segue il padre in questa mini epopea metropolitana dà un senso alla storia che assume dei connotati che vanno al di là del panorama urbano che ci viene presentato . Il bambino è il testimone della disfatta morale del padre, è colui che vede cascare il mito del genitore sotto i suoi occhi, in quanto è presente quando Ricci preso da un momento di disperazione ruba a sua volta una bicicletta e questo spezza il legame che c’era precedentemente tra padre e figlio. Il  sociale viene oscurato dal dramma dell’annientamento totale della superiorità che il capofamiglia aveva nei confronti della prole. Il gesto finale di Bruno che torna da Ricci prendendogli la mano è la testimonianza che da adesso in poi Ricci non sarà più un Dio per suo figlio ma soltanto un persona amata che è tornata tra i mortali . Gli attori si identificano con il proprio personaggio, la scelta di gente di strada da parte di De Sica è tutta volta a cancellare l’idea di recitazione, come la sceneggiatura cancella l’idea di racconto predeterminato da causa e effetto. La possibile interpretazione di Cary Grant nel ruolo di Ricci (in quanto la produzione voleva un grande nome, ma De Sica si oppose) forse sarebbe stata una grande pubblicità per la pellicola, ma avrebbe fatto perdere quella valenza di realtà presente per tutto il lungometraggio. La messa in scena non regala nulla al decoupage classico e anche se tutto è stato preparato nei minimi particolari, tutto risulta estremamente naturale, vero, senza nessun trucco o pretesto narrativo. Il trotterellare di Bruno dietro a Ricci sembra una passeggiata tra padre e figlio . Seguire un uomo per novanta minuti della sua vita questo sarebbe il mio film ideale, Zavattini con questa opera va molto vicino al suo più utopico intento, almeno per quanto riguarda la sensazione che il pubblico ha nel guardarla. La scelta degli attori degli esterni dei costumi è durata per mesi e quindi si può tranquillamente affermare che la preproduzione della pellicola è stata altrettanto difficile che in un film classico. Ma l’abilità del regista e dello sceneggiatore hanno portato ad un risultato incredibile. La riuscita suprema di De sica, a cui altri non hanno fatto che avvicinarsi più o meno, è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare le contraddizioni dell’azione spettacolare e dell’avvenimento. “Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente l’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema.
Ladri di biciclette rende un grande contributo al movimento neorealista e anche da una boccata di ossigeno al sistema  che si stava un poco poggiando sugli allori del recente passato, quasi istituzionalizzando certi procedimenti che possono avere tutti i difetti ma non quello di essere istituzionali. La politica entra in scena prepotentemente in questo periodo e si inizia a sgretolare quella santa alleanza che vedeva comunisti e cattolici insieme contro il nazifascismo. Anche durante il lavoro di De Sica e Zavattini sopra riportato i problemi sociali che vengono fotografati durante le riprese dei film assumono rilevanza politica in un clima contraddittorio dove le divergenze ideologiche tornano prepotentemente alla ribalta dopo il sodalizio dei preti con i partigiani e i soldati americani. Dal momento che i cattolici raggiunsero il potere nel 1948 si creò un clima di restaurazione politica che non favorì certo un cinema di opposizione o ancor peggio con tendenze comuniste. Si spiega così perchè certe pellicole come Umberto D e ancor prima Ladri di biciclette non ebbero l’appoggio della maggioranza al governo  e anzi furono ampliamente criticate. Per quanta riguarda questo studio la cosa interessante sta nel fatto che per una ragione o per l’altra è difficile scindere i fatti con la politica e spesso alcuni potenti preferirebbero non evidenziare certe problematiche che offuscano la mente dei ben pensanti. Scegliere di mostrare il passo lento dell`operaio che torna a casa può creare non pochi problemi anche in democrazia, specialmente se quest’ultima fa di tutto per passare agli occhi del mondo come perfetta e senza problemi. Uno dei grandi meriti storici di alcuni film che ho citato è quello di tramandare alle nuove generazioni l’Italia di quel tempo, forse ancor meglio che libri o puri cinegiornali, e in particolare Zavattini riesce ad inserire nelle proprie storie un clima fiabesco che non contrasta assolutamente con la durezza dei fatti e rende più appetibile la visione agli spettatori. Sciuscià ci racconta il sogno di un cavallo bianco, senza risparmiarci la ruvidità del clima reale in cui esso viene vissuto, o ancora Ladri di biciclette é un grande documento sociale che può essere letto  anche come un grande racconto fantastico.
Il valore di queste pellicole é universalmente condiviso come ci testimoniano alcune dichiarazioni che riporterò a conclusione di questo paragrafo.
Sciuscià di Vittorio De Sica é noto come una pietra miliare del neorealismo italiano. E però molto di più: per me é una parabola senza tempo sulla natura corruttrice e intricata del male.”(Robert Altman).
 “De Sica era un genio. Un genio sobrio e maturo. Non appariscente ne affascinato dal capriccio della cinepresa, o dallo stile fine a se stesso. Sciuscià é un capolavoro. Termine troppo usato per descrivere molti buoni film. E anche belli, ma non vere opere d’arte. Ë superato soltanto da Ladri di biciclette ( certamente uno dei pochi grandissimi film di tutti i tempi). Sciuscià é un poema e nella sua semplice umanità rende grande il cinema tutto”. (Woody Allen )
“Sciuscià, un film eterno tra i più belli della nostra vita.” (Gianni Amelio)”.

  

Luchino Visconti 

 “Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi.. Il cinema che mi interessa é un cinema antropomorfico .”Così Visconti, nel 1943, all’inizio della sua carriera di regista apostrofava la sua volontà di sperimentare strade culturali ed estetiche che si discostavano dal passato. Ma vediamo, per quanto concerne questo studio, il lavoro del maestro che ha maggiormente a che fare con il periodo preso in esame, tralasciando l’indagine su come veramente certe volontà si siano sviluppate nel tempo. Dei tre registi a cui ho prestato maggiormente attenzione fino ad ora Visconti è colui che non si è presentato all`appelo con la macchina da presa alla fine della guerra. Con lui si ha un regista maturato da una non breve cultura e raffinato da una rara indipendenza , ha iniziato ad interessarsi di cinema fin dagli anni trenta ma non è stata mai la sua unica passione e questo a volte volontariamente a volte no lo ha portato lontano dalla macchina da presa. Con Ossessione (come già affermato precedentemente) il regista anticipa alcuni aspetti del neorealismo che esploderanno definitivamente con l’avvento di Roma città aperta. Quando nel 1942, il nostro cinema ancora si costringeva sui canoni della propaganda , in quello stesso anno Visconti stava creando il suo film decisamente anticonformista. Non eroi esemplari, non ambienti lindi, non igenico benessere e altre rime obbligate; ma un brutale fatto di cronaca, (mischiato a letteratura) di foia e di delitto . Tra le varie anticipazioni che Visconti apre con la sua prima opera si può sottolineare in questa sede la sua innovatività nel cercare nuovi modelli di riferimento come la narrativa americana, che era fino a quel momento del tutto inedita nel panorama cinematografico italiano, ma che era già entrata nelle menti e nei cuori di molti intellettuali italiani. Già con l’adattamento, nel suo primo film, del romanzo di James Cain (Il postino suona sempre due volte) si può notare quanto fosse forte la necessità di entrare in contatto con nuovi modelli di interpretazione. Questo bisogno intellettuale e morale si può ritrovare anche in altri contesti come testimonia in una nota del 1946 Cesare Pavese: “Noi scoprimmo l’Italia cercando gli uomini e le parole in America,  Russia, in Francia e nella Spagna.” ( Pavese, 1968, 223) .
La formazione di Visconti tra l’altro fu molto variegata e non si basava soltanto sulla letteratura, tra cui oltre a quella americana c’è da ricordare la sua passione per il naturalismo francese, ma anche sullo stesso cinema transalpino e in particolare sulle opere di Jean Renoir, di cui fu assistente nel 1936 sul set del film (Una gita in campagna) . Questo tipo di apertura mentale ed intellettuale lo aiutò ad affrontare il suo lavoro con accuratezza  e innovatività. Tra la sua prima cinematografica e la seconda passano sei anni in cui Visconti accumola molte esperienze teatrali che avranno la loro influenza nel futuro del prestigioso regista. In questo periodo Visconti si proietta fino al limite delle avanguardie, mettendo in atto tecniche da direttore di orchestra. Lavora nei più prestigiosi teatri italiani tra cui l’Eliseo di Roma e la Pergola di Firenze allestendo memorabili regie come Zoo di vetro (di Tennesse Williams nel 1946) o l’ Eurodice (di Anoilh nel 1948), dimostrando ancora di più il suo genio poliedrico . Nel 1948 esce La terra trema tratto da i Malavoglia di Verga, il quale era già stato progettato fin dal 1941, e che  voleva essere l’inizio di una trilogia sul mondo del sud. Realizzato figurativamente sotto il segno della pittura di Renato Guttuso, il film è un grande viaggio di catabasi, di ritorno alle madri, di discesa alle radici della cultura nazional popolare. Questa opera porta con se un linguaggio faticosamente decifrabile, in quanto gli attori sono veri contadini e pescatori siciliani che parlano per tutta la durata della pellicola un dialetto molto stretto. Per crearla, Visconti, si aggirò a lungo in un paesino siciliano nei pressi di Catania, Acitrezza scrutando le ore e i giorni di quei pescatori e contadini. La storia descrive la vita di Ntoni, che stufo di essere sfruttato da rigattieri e grossisti di pesce decide di fare da se. Egli vuole diventare padrone, pagare i suoi uomini, salare il suo pesce, e venderlo a chi vuole lui. Ntoni ipoteca la casa di famiglia per acquistare una barca. Ai buoni inizi si contrappone una tempesta che distrugge il peschereccio del protagonista. Dopo varie umiliazioni infertegli dai suoi ex padroni a lui e alla sua famiglia, tornerà a lavorare sottoposto avendo perso anche la casa. Delle sue sorelle una non si sposerà per la vergogna, un’altra intraprenderà una perfida via. Lo svolgimento non concede nulla alla tensione drammatica. Gli avvenimenti vi sorgono  al momento giusto, gli uni dopo gli altri ma ognuno di essi vi pesa lo stesso. Se certuni sono più carichi di senso è solo a posteriori, liberi noi di sostituire il dunque all’allora. Questa opera è soprattutto per questo, maledetta, praticamente non sfruttabile nel circuito commerciale, se non dopo mutilazioni che la rendono irriconoscibile.   In La terra trema, Luchino Visconti esalta la tensione realistica a discapito del melò, portando sullo schermo un decoupage strettamente collegato alla realtà. Tutto ha una base naturalistica combinata con suggestivi elementi visivi, di fatto siamo di fronte a elementi figurativi e sonori estremamente complessi. La Terra trema, girato negli anni in cui pareva che i  cadaveri fossero stati sotterrati (vedere paragrafo precedente) è una lettura critica dei Malavoglia. Visconti lavorando con pescatori, braccianti, muratori ecc. narra di uomini che sfruttano altri uomini al modo di Verga, ma muta il nesso dallo scrittore davanti alle azioni, pensieri, amarezze dei suoi personaggi. Abbandonata la rassegnazione dei vinti(punto fondamentale della poetica del Verga) essi  vanno alla ricerca di una possibilità di riscatto, per adesso ancora loro negata. Le disgrazie della famiglia Valestro (protagonista del film) non sono lette, in chiave di destino ben si riportate a un ben definito contesto storico sociale. La terra trema oltre per valori narrativi  e figurativi,  si impone come studio rigoroso  delle condizioni del proletariato meridionale del dopoguerra. Il verismo della seconda metà dell’ottocento si mischia a un marxismo tutto novecentesco. Si può qui facilmente dimostrare come nuove fonti di ispirazione come letterature stranire (Cain)  o letterature conterranee (Verga) siano messe al servizio della volontà del regista che alla sua maniera lancia un messaggio sociale e politico forte e chiaro verso il periodo che sta vivendo.Walter Mauro contrappone la volontà del cineasta con quella degli scrittori da cui sono state tratte Ossessione e La terra trema, mettendo in luce la differenza di intenti  tra il cinema e la letteratura . Visconti per tutta la sua carriera si evidenzierà da i suoi colleghi per le musiche, i costumi e le scenografie sontuose che eredita dall’altra sua grande passione il teatro, ma sempre dando alle sue pellicole un senso cinematografico e civico importante. Anche con l’adattamento al romanzo di Verga, egli non si limita a copiare dalla carta alla pellicola, ma scruta le potenzialità della vicenda mettendo in mostra aspetti di forte rilevanza politica. I vinti sono tali perchè la politica non si interessa di loro, li emargina e gli rende privi di difesa davanti al mondo. La mescola di questi intenti rende il film come una grande produzione teatrale dove il regista lentamente giuda il binocolo dello spettatore sui dettagli delle stanze dei vestiti o della vita nei campi, mostrandoci uno spettacolo stilisticamente molto raffinato in contrapposizione con il contenuto estremamente ruvidio e di bassa estrazione sociale. La voce fuori campo che guida il pubblico attraverso questo percorso annunciatamente fallimentare, aiuta lo spettatore ad entrare nell’ottica del regista che visualizza sul grande schermo una pittura tanto minuziosa nella forma e nei particolari quanto  grave e di denuncia nella sostanza. Come tradizione e particolarità dei registi neorealisti, anche in questa opera  non ci viene urlato niente, e soltanto grazie ad associazione di idee che si può estrapolare un messaggio dalla pellicola. Fotografia quanto mai reale e quindi assolutamente oggettiva. Come ci ricorda Bazin il contesto sociale del periodo non può prescindere dalla storia. Lo stesso Visconti parlando della Terra trema venti anni dopo la sua realizzazione evidenzia la mentalità che lo aveva portato ad affrontere l’adattamento cinematografico al mondo Verghiano. “... a ben guardare però, anche nella Terra trema io ho cercato di mettere a fuoco, come fonte e ragione di tutto lo svolgimento drammatico, un conflitto economico...Il tema della sconfitta, della irrisione da parte della società dei piú generosi istinti individuali é un tema moderno quanti altri mai...” (Luchino Visconti)

Ugo Pirro, Celluloide, Roma, Rizzoli, 1983, pp.14-15

A cura di Rosa Brambilla, op. cit.

David Bordwell-Kristin Thompson, op. Cit., vol.2, p.90

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2, p.61

Stefano Masi-Enrico Lancia, I film di Roberto Rossellini, Roma, Gremese editore, 1987, 

Ibidem.

Ibidem.

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2, p.63

Ibidem. p.64

Ibidem.

A cura di Lino Miccichè,  Il neorealismo cinematografico italiano, cit., saggio, Rossellini oltre il neorealismo, di Adriano Aprà

André Bazin, op. cit., p.291

Ibidem.

Andrè Bazin, op. cit., p. 297

Ibidem.

André Bazin,op. cit., p. 299

Andrè Bazin, op. cit., pp. 298 299

A cura di Rosa Brambilla, op. cit.

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2, p.66

Gian Piero Brunetta, op. cit. , vol.2, p.66

David Bordwell-Kristin thompson, op. cit., p.84

A cura di Rosa Brambilla, op. cit.,

A cura di Lino Miccichè, Sciuscià, di Vittorio De Sica, Torino, Lindau, 1994.

  Associazione Amici di Vittorio De Sica, op. cit.

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2, p.70

Ibidem.

Associazione amici di Vittorio De Sica, op. cit.

Associazione Amici di Vittorio De Sica, op. cit.

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2, p.72

Associazione amici di Vittorio De Sica, op. cit.

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2., p.72

André Bazin, op. cit., p.307

André Bazin, op. cit., p. 309

Ibidem.

André Bazin, op. cit., p.310

Ibidem.

André Bazin,op. cit., pp.317- 318

A cura di Lino Miccichè, Sciuscià, di Vittorio De Sica, cit., testimonianze iniziali.

Lino Miccichè, Visconti e il neorealismo, cit.

Carlo Bestetti, op. cit., Paragrafo su Visconti

Ibidem.

Antonio Costa, op. cit., p.100

David Bordwell- Kristina Thompson, op. Cit., vol.2, p.90

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2, p.76

Ibidem.

Carlo Bestetti, op. cit., paragrafo su Visconti.

André Bazin, op. Cit., pp.316 317

A cura di Rosa Brambilla, op. cit.

Ibidem.

Lino Miccichè, Visconti e il neorealismo, cit., p.97

 

I divi del neorealismo

 Un argomento molto dibattuto quando si parla di neorealismo è sicuramente, la scelta degli interpreti, se così ancora gli possiamo chiamare. Come abbiamo visto per lo stile registico e le trame anche la recitazione assunse una nuova dimensione che già precedentemente ho cercato di mettere in evidenzia parlando di attori presi dalla strada o di presa diretta della realtà. La voglia di staccarsi dal passato influenzò anche questo aspetto della produzione cinematografica. Per alcuni attori passare dai teatri di posa alla strada fu quasi naturale. Adattare le convenzioni recitative con le riprese in esterno e con le nuove esigenze stilistiche per altri costituì un vero e proprio spartiacque che implicava una vera e propria rivoluzione nell’approccio con il set . A partire dal dopoguerra il cinema neorealista nega le star, come archetipi irraggiungibili, modelli unici ed irripetibili (come G. Garbo o Ava Gardner) preferedo a loro persone comuni popolari o che avessero le sembianze di gente della strada. In questo periodo a cavallo con gli anni cinquanta  e ancora negli anni sessanta il cinema è di fronte a quello che Edgar Morin ha definito la morte dello star system. Secondo Morin (che analizza il fenomeno sotto un punto di vista antropologico) le star del cinema classico sono paragonabili a semidei artificiali; le star degli anni cinquanta attraversano invece una sorta di crepuscolo degli dei, un processo di umanizzazione la cui più evidente espressione è l’apparizione di un antieroe come James Dean. In questo passaggio un contributo lo hanno avuto sicuramente anche i registi del neorealismo sia in maniera diretta, sia in maniera indiretta considerando l’influenza delle loro opere negli autori della Nouvelle Vague. A supporto di quanto detto potremmo citare una dichiarazione di Ingrid Bergman che nel 1954 diceva a proposito di Rossellini “di non aver recitato ma di aver attraversato i suoi film”. Il film come taversata e non più come interpretazione di ruoli è una definizione piuttosto efficace della concezione del modo di lavorare di Rossellini, che tanto avrebbe influenzato il nuovo cinema. Questo percorso contribuì alla esaltazione di doti nascoste proprio grazie a talentuosi cineasti. Apristrada di questa nuova tendenza è sicuramente (almeno per quanto riguarda l’Italia ) Anna Magnani. La sua naturalezza unita alla sua spontanea aggressività, magistralmente diretta da Rossellini fa della sua interpretazione in Roma città aperta qualcosa di unico. Il grido della Magnani (Francesco... Francesco...in Roma città aperta) il suo furioso divincolarsi e correre dietro al camion dei prigionieri prima di cadere sotto la raffica dei mitra sono quasi diventati il simbolo della resistenza Europea raccontando la lotta al nazifascismo meglio di molti documenti scritti. C’è nel suo sacrificio per affermare le ragioni della vita, una potenza emotiva e una capacità di interpretare il reale, che Brunetta, paragona alla ceramica di Leoncillo Leonardi sulla Madre Romana uccisa dai tedeschi . Tutto quello che fino ad allora aveva sfavorito il confronto della Magnani con le dive autarchiche del periodo, da Roma città aperta diventano talenti vincenti. Il linguaggio fortemente romanesco, l’eccessiva gesticolazione e la mancanza di autocontrollo diventano punti di forza all’interno di un clima che iniziava a cambiare anche per quanto riguarda l’interpretazione, sempre più reale e sempre meno impostata. Una romana disposta ad ogni sacrificio, intrepida, armata di umorismo scarnificante e che sta dalla parte giusta per istinto, per adesione naturale ( Carrano, 1982) . Le star, come diventerà di li a poco Anna Magnani, scendono dal loro piedistallo diventando più umane . Aldo Fabrizi, nella stessa pellicola, rappresenta la forza di volontà di guardarsi avanti dell’italiano nuovo, attraverso il personaggio Don Pietro elimina ogni tipo di costruzione letteraria ed ogni tipo di recitazione impostata. È uno di quegli attori che con più facilità si adeguano al nuovo stile che si stava affermando nel dopoguerra in quanto già da prima aveva abbandonato certe impostazioni accademiche. Il suo contributo in questo periodo cinematografico sarà molto importante anche per altri registi come Castellani in opere che esaltano la sua naturalezza nell’ incarnare personaggi vicinissimi alla realtà . L`indimenticabile interpretazione dei due attori appena citati nel  film che apre la strada ad un nuovo modo di fare cinema non passò certo inosservato agli occhi  del pubblico. Certo è da considerare che le cronache dell’  epoca facevano a gara nel ricordare che molti interpreti dei film di Rossellini o De Sica erano dilettanti che a volte si mischiavano con professionisti del mestiere. Da qui Bazin ci presenta la sua teoria dell’ amalgama. Secondo il critico francese c’è da ricordare che questo tipo di procedimento era già presente sia nei fratelli Lumiere, sia nelle avanguardie russe degli anni venti. Infatti già in quel periodo si ricorreva ad attori non professionisti ai quali si faceva tenere il ruolo della loro vita quotidiana, ma da allora al neorealismo italiano nessuna grande scuola cinematografica si rifarà all’assenza di attori. “Non è l’assenza di professionisti che può caratterizzare il realismo sociale al cinema, ma proprio la negazione del principio delle vedette e l’utilizzazione indifferente di attori di mestiere e attori occasionali. ” Quel che importa è che il pubblico non realizzi la differenza, e quindi bisogna evitare che certi ruoli siano appannaggio sempre di una solita persona. Non necessariamente il mestiere è controindicativo se usato per calarsi all’interno della messa in scena, e chiramente il dilettante allo sbaraglio non sarà tale se ricoprirà un ruolo che per conformità fisica biografica e sociale rispecchi la sua vita nel mondo reale. Questo tipo di amalgama se riuscito ottiene un impressionante sensazione di verità. La controindicazione è che quando un volto diventa familiare allo spettatore questo tipo di operazione non è più concepibile. De Sica e Zavattini come detto in precedenza, hanno saputo sfruttare al meglio gente comune per ruoli difficili come in Sciuscià e in Ladri di biciclette e con loro anche Rossellini e lo stesso Visconti (che ha diretto un esercito di dilettanti nella Terra trema), ma questo sforzo piana piano ha perso la sua forza. Il neorealismo chiede l’identificazione totale con i personaggi dei film, ma quello che stilisticamente sembra qualcosa di più di una tappa obbligata del cinema italiano, perde il confronto con l’esigenze commerciali che impongono di nuovo modelli vicini a quelli del divismo americano. L’immediatezza e la spontaneità che ricercavano i registi nella gente comune viene accantonata dopo pochi anni, (anche se Zavattini continuerà a inseguire il proprio sogno di far diventare protagonisti tutti gli italiani e di registrarne con la macchina da presa le infinite storie ) ma lascia una traccia indelebile, che come accennato all’ inizio del paragrafo, influenzerà il futuro del cinema mondiale. Del resto come ci suggerisce Brunetta gli stessi Fabrizi e Magnani , anche se riescono a far cadere tutte le convenzioni interpretative precedenti, hanno una naturale vocazione divistica che già in Roma città aperta è possibile riscontrare . Robert Brustein scrive nel 1959 che, tra gli altri, Anna Magnani, “a differenza delle star Hollywoodiane, non possiede una bellezza eccezionale, ma suscita interesse più per l’intensità dei sentimenti che per il suo fascino fisico, e che il suo stile di recitazione comincia ad essere imitato dalle star tradizionali. ” In definitiva possiamo concludere che la ricerca del reale e della spontaneità sia nei dilettanti sia nei professionisti era volta a rinnegare  i canoni dell’attore classico per mettere in primo piano i sentimenti e le contraddizioni della gente comune, fotografare la realtà sociale del paesaggio in cui si svolgeva l’azione e raccontare i  fatti così come erano stati vissuti, senza dare adito alla facile spettacolarizzazione. Le ragioni che spingevano i registi del neorealismo a queste scelte erano di natura sociale e stilistica, in contrapposizione con il cinema classico dell’epoca.

 

 Conclusioni  finali

A conclusione di questo capitolo che vuole tracciare un profilo del neorealismo italiano, si può evidenziare come certe convinzioni o certe leggende su quel periodo storico hanno  una parte di verità mescolata ad una parte di fantasia. C’e da ricordare anche che il cinema del dopoguerra non era affatto soltanto neorealista anzi la produzione filmica di quegli anni si avvalse anche di pellicole cosiddette di genere e di consumo, con il quale il neorealismo del resto, ebbe continui rapporti di scambio. Il cinema girato per la strade, gli attori presi dalla strada, la realtà fissata senza manipolazioni e senza partiti presi: queste alcune delle formule in cui si é cercato di racchiudere l’esperienza del neorealismo italiano . Prendendo spunto dai paragrafi precedenti si può notare come queste formule spesso siano superficiali nell’analisi del fenomeno in questione. Abbiano detto, che si trattava di un movimento in controtendenza con il passato ma anche figlio di quest’ultimo, basti pensare al dibattito intellettuale che già con Leo Longanesi agli inizi degli anni trenta andava prendendo corpo, fino ad arrivare alle numerose riflessioni ed invocazioni sulle riviste Bianco e nero e Cinema, la quale quest’ultima era diretta dal figlio del Duce. La difesa di un cinema nazionale,  reale e popolare negli ultimissimi anni del regime é addirittura volta a sostenere certi film di propaganda come La nave bianca o L’uomo della croce di Rossellini. É anche vero  che un intellettuale come Visconti con Ossessione fece balzare dalla sedia lo stesso Vittorio Mussolini apportando una ventata di freschezza nella cinematografia italiana, e aprendo la strada al forte scambio culturale con la letteratura nord americana. Sicuramente uno dei punti di forza del neorealismo fu quello di adattare alla realtà italiana modelli letterari e cinematografici tra i più variegati, i quali spesso furono studiati e dibattuti all’interno di istituzioni fasciste come le riviste precedentemente citate o come Il centro Sperimentale di Cinematografia. I critici di allora avevano promosso un vasto lavoro di aggiornamento che sicuramente contribuì alla formazione di molti cineasti del dopoguerra neorealista. Se quindi possiamo trovare una sorta di continuità tra il 1945 e gli anni precedenti possiamo anche evidenziare, sempre rifacendoci ai precedenti paragrafi come la presa diretta della realtà a volte comportasse un vero lavoro di pre produzione che non aveva niente da invidiare con i film classici, come ci dimostra la lunga e minuziosa scelta degli interpreti in un film come Ladri di biciclette, che rappresenta un capo saldo del movimento. I vari propositi e le varie provocazioni di Zavattini spesso rimasero tali e non trovarono una effettiva realizzazione nei testi filmici anche se promossero fortemente una nuova mentalità, che fosse più sensibile all’uomo comune e alla sua ordinaria e monotona (per alcuni ma non per Zavattini) vita. Gli stessi attori presi dalla strada, si mescolarono in alcuni casi, tra cui il più famoso in Roma città aperta, con professionisti del mestiere portando Bazin a formulare la teoria dell’amalgama, che di fatto evidenzia l’importanza dell’azzeramento del canone del vero attore, ma non per questo ritiene sempre indispensabile l’uso della gente di strada. Soprattutto il critico francese esprime le sue perplessità sulla possibilità che l’amalgama sia sempre applicabile nel tempo. Certe regole fisse del  neorealismo, non sono affatto tali, di fatto nell’analisi di alcuni tra i più importanti registi e film dell’epoca si può notare come Roma città aperta si avvalesse di veri attori (Anna Magnani e Aldo Fabrizi), o come La terra Trema avesse una fotografia e una illuminazione minuziosa in contrapposizione con quella di altre pellicole del movimento come Sciusciá che invece si avvale di una fotografia sgranata, sovrapposta e in controluce. Lo stretto legame con la cronaca e il costume e un’altro tratto che può accomunare le diverse personalità che diedero vita al movimento. Ma il dato cronistico o documentaristico, che spesso rappresenta un puro e semplice punto di partenza, acquista significati diversi nei singoli registi. Nella trilogia della guerra di Rossellini, sono il dato comportamentale e la reazione morale che assumono rilevanza all’interno delle tematiche affrontate, questa caratteristica é particolarmente riscontrabile in Germania anno zero. Nel caso della coppia Zavattini De Sica poi i dati piu comuni dell’esistenza quotidiana colti con toni apparentemente dismessi e crepuscolari, subiscono una trasfigurazione surreale, da favola intrisa di umori ora patetici ora grotteschi. Con Visconti invece i legami cronistici o giornalistici scendono in secondo piano (pur esistendo), rispetto alla sua straordinaria capacitá di assimilare in un elegante manierismo, modelli tratti dalla tradizione letteraria, pittorica e musicale a cavallo con il diciannovesimo e il ventesimo secolo . Anche prendendo in considerazione solo questi registi si puó constatare che si tratta di tre divergenze parallele, o meglio si potrebbe parlare: quanti furono i neorealisti, tanti furono i neorealismi. Si sta parlando di un a aggregazione di fenomeni, non di uno solo .  In ogni elemento citato possiamo riscontrare delle differenze ma alcune caratteristiche  sono evidenti e comuni per tutti. La capacitá di cogliere lo scenario umano e sociale dell’Italia del dopoguerra o ancor prima della resistenza da un forte contributo storico e stilistico. Storico in quanto si possono ricostruire vicende realmente accadute anche grazie a questi lavori, stilistico perché anche se l’ereditá del melodramma é ancora presente, l’azione viene raccontata in modo innovativo avvalendosi di casualitá, ellissi, finali aperti ma soprattutto dando rilevanza ai fatti della vita reale, assumendo cosi un ruolo di denuncia sociale ancor prima che di presa di posizione politica. Nella mia analisi non mi sono soffermato su tutti i possibili aspetti che é possibile riscontrare nello studio di questo delicato periodo, ma ho cercato di mettere in luce la volontà di diverse mentalità nel trovare e raccontare storie veramente italiane (come sottolineo  da Lizzani alla prima di Roma città aperta), che rispecchiassero la societá dell’epoca, non per rincorrere facili consensi ma bensì per dare un calcio alla chiusura della cultura ufficiale  fascista in un clima di frenetico aggiornamento culturale e morale. Nell’affrontare il nuovo capitolo intendo mantenere gli stessi principi guida che mi hanno accompagnato nel primo mettendo in evidenza cosa un certo tipo di televisione stava cercando di fare e perché certi modelli di tv realtá o reality show non  si possono rinchiudere in definizioni molto rigide. La presa diretta della realtá quotidiana attraverso il mezzo cinematografico, abbiamo visto come trova riscontri più nella ideologia e nella critica che non nei testi filmici, anche se questi hanno  grandi meriti estetici e culturli. Forse il filtro cinematografico non ha permesso in maniera totale di trasformare certe idee in fatti concreti anche se in alcuni casi come si é visto, si é andati molto vicino. Adesso vedremo come l’idea di raccontare la realtá con la realtá sia stata sviluppata in televisione  decenni dopo l’avvento del neorealismo, tenendo presente che si parla di due media diversi tra loro anche se in continuo intreccio.

Gian Piero Brunetta, op. cit., vol.2, p.95

Edgar Morin, Le Star, Milano, Olivares, 1995, pp.13 14

A cura di Gian Luca Farinelli e Jean-loup Passek, Star al femminile, Bologna, Cineteca del comune di Bologna, 2000, p.190

Gian Piero Brunetta, op. cit., p.96

Ibidem.

A cura di Gian Luca Farinelli e Jean-Loup Passek, op. cit., p.157

Gian Piero Brunetta, op. cit., p.97

André Bazin, op. cit., p.283

Vedere il film  Amore in città

Gian Piero Brunetta, op. cit., p.98

A cura di Gian Luca Farinelli e Jean-Loup Passek, op. cit., p.157

Antonio Costa, op. cit., p.96

Antonio Costa, op. cit., pp. 101 102

Ibidem.

 

SECONDO CAPITOLO

LA REALITY TV

Introduzione

 “…Entra in crisi il rapporto di verità fattuale su cui su cui riposava la dicotomia tra programmi di informazione e programmi di finzione e questa crisi tende sempre più a coinvolgere la televisione nel suo complesso trasformandola in veicolo dei fatti, in apparato di produzione dei fatti, da specchio della realtà a produttore della realtà. ” (Eco, Wolf 1981)
Reality show é probabilmente una parola di cui spesso si abusa per definire fenomeni mediatici che forse di reale non hanno molto(almeno per la concezione comune di questa parola), o semplicemente si rifanno ad uno slogan che in termini di ascolto é vincente. Nel  momento in cui sto scrivendo la televisione é piena di programmi che prendono spunto da questo termine per sbizzarrirsi in formule sempre più innovative per alcuni versi  ma anche sempre più ripetitive per altri. Il Grande Fratello ha trovato in poco tempo adattamenti e contesti sempre più estremi come isole tropicali o prove al limite della resistenza (e per alcuni anche della decenza), sempre in virtù di un migliore ascolto (o share). Ho citato deliberatamente il programma Grande Fratello in quanto é sicuramente l’apristrada di un  filone tuttora esistente all’interno della nostra televisione ed anzi in continua evoluzione.  Non é del tutto corretto però considerare questo fenomeno mediatico (come molti lo hanno definito) come il padre di tutti i reality show, in quanto esistevano gia da prima, sempre limitandoci al panorama italiano, dei format che avevano fatto coniare da giornalisti e addetti ai lavori la parola tv veritá (che poi si é    erroneamente confusa con reality show), che però, come vedremo, per linguaggio ed obbiettivi differiva non poco da quello che adesso viene proposto da quasi tutte le reti televisive, sia esse statali che commerciali. C’é anche da considerare che uno dei  punti di riconoscimento di questi attuali programmi, nell’immaginario del pubblico é la presenza di persone comuni, riprese dalla telecamera ventiquattro ore su ventiquattro  all’interno di situazioni straordinarie (come un casa chiusa da cui non si può uscire se non per eliminazione) o alternaitivamente persone conosciute (vip) costrette a sopravvivere  in posti esotici  sotto gli occhi del pubblico, in ambedue i casi giudice sovrano del futuro dei protagonisti del programma. La realtà diventa gioco in cui lo spettatore si identifica con quello o questo personaggio che cerca di farsi largo tra tutti i concorrenti per arrivare alla  fine e vincere (possibilmente un buon assegno in euro). Certo l’idea di creare uno spettacolo con la gente comune non é certo una novità in televisione basti pensare a programmi storici (degli anni sessanta) come il quiz di Mike Buongiorno Lascia o Raddoppia dove i concorrenti divenivano delle mini star grazie alla loro improvvisa visibilitá. La creazione della candid camera ( che in America avviene nel 1948), dove Nanny Loy si burlava di persone della strada costrette a subire scherzi o giochi a loro insaputa, apportò una nuova forma di intrattenimento dove il pubblico si identificava con i malcapitati pensando a cosa avrebbe fatto  nelle medesime circostanze. Tutto questo iniziava  a  mettere in primo piano la persona comune che si doveva confrontare con imprevisti all’insaputa di una telecamera che la riprendeva. Allora forse era anche difficile concepire i risvolti delle produzioni televisive attuali ma una certa volontà nel creare dei divi sul momento forse c’era anche decenni fa. Del resto il divismo televisivo di questo stampo costa poco ed ha tanta resa in termini di share, e quindi conveniente per chi lo produce. Cercherò adesso di esemplificare che cosa possiamo rinchiudere nella parola reality show e che realtà ci vuole proporre. Innanzi tutto questo tipo di definizione è impropria anche se diffusissima e riconoscibilissima da parte della maggior parte dei telespettatori, ma rappresenta soltanto un sottoinsieme della reality tv che si definisce come: “tutti quei programmi esplicitamente basati sulla tematizzazione di eventi, situazioni, tempi e persone che vengono presentati come veri, contemporanei e autentici ”. La reality tv filtra la realtà in modi diversi a seconda del format cui di volta in volta si fa riferimento. Essa si divide in programmi come: Stranoamore, Uomini e Donne o Al posto tuo dove si discute la realtà di persone comuni all’interno di uno studio; e in trasmissioni come Telefono giallo, Un giorno in pretura, Chi l’ha visto? dove invece la realtà di situazioni e luoghi solitamente estranei alla televisione ci viene apparentemente restituita senza veli . Il primo gruppo ha caratterizzato la televisione generalista degli anni Novanta prendendo il nome appunto di reality show, il secondo è nato alla fine degli anni Ottanta in un clima politico del tutto particolare prendendo il nome di tv verità. Alla fine degli anni Novanta e con l’inizio del nuovo millennio esplodono nuovi format dove il pubblico assiste alle vicende di persone comuni che si calano in missioni, progetti sfide e competizioni che vengono riprese nel loro farsi, come per esempio:  il già citato Grande Fratello, Survivor o Operazione trionfo. “Questo ultimo genere è forse il frutto della mescolanza del reality show con la tv verità, cioè dell’effetto documentaristico di quest’ultima unito con la saop opera della prima. ” Inizierò questo approfondimento da un caso particolare riguardante Rai tre, che creò non poche polemiche più di quindici anni fa, in quanto la rete introdusse nel suo palinsesto televisivo delle innovazioni che alla fine degli anni ottanta portarono una piccola rivoluzione nel concepire l’intrattenimento domestico. Ancora un’ultima precisazione è d’obbligo, riguardante il fatto che più che ci si avvicina agli anni duemila più che ci troviamo di fronte a una omologazione del prodotto televisivo da parte delle maggiori reti televisive, sia esse statali che private.

Un Caso Particolare (gli anni ottanta)

Nel 1987 per una sorta di patto politico dovuto alla situazione preesistente nel panorama partitico dell’epoca, la terza rete  statale viene messa a disposizione ad affidata a personaggi  come Guglielmi, Balassone, Beghin, Ghezzi, Voglino, Gabutti, i quali si pongono subito il problema di rinnovare il linguaggio televisivo italiano, cercando di fare qualcosa che gli altri ancora non avevano sperimentato . Nelle loro convinzioni politiche (di estrazione comunista), sociali, e culturali la televisione del periodo non era sufficentemente in grado di far fronte alle esigenze di una parte di società. Alla fine degli anni ottanta la critica che maggiormente veniva mossa alle reti televisive italiane era quella di essere troppo evasive, fatiscenti e qualche volta bugiarde. Nacque così su Rai tre la cosiddetta tv verità, espressione coniata dai giornali per definire il fenomeno che di li a qualche anno spopolò (e si confuse) con la definizione di reality show. Gli spettatori finalmente avevano uno mezzo mediatico pronto ad aprirsi allo spettacolo della realtà. Questo nuovo spettacolo doveva fornire una comunicazione più immediata (meno manipolata da autori, registi, ecc.) e favorire una fruizione più immediata da parte del pubblico. Nasceva così in quegli anni grazie all’unità di intenti di questi autori televisivi Telefono giallo (che voleva riaprire inchieste su casi criminali da tempo languenti, o addirittura archiviate con l’ambizione massima di risolverle, 1987), Linea rovente (che dava spazio a eventi del quotidiano, 1987), Chi l’ha visto? (che prendeva di petto la questione delle persone scomparse, promovendo la loro ricerca e mettendo in evidenza un fenomeno sociale piuttosto esteso, 1988) . Attraverso queste operazioni mediatiche si offriva una sorta di fiction dal vero, o sia una ripresa della vita di persone qualunque. Va però specificato che ciascuno dei filoni della tv verità dei tardi anni Ottanta, dai programmi di ricerca di persone scomparse ai processi tele ripresi (vedere Un giorno in pretura, di cui parlerò specificatamente in seguito), fino alla collaborazione tra polizia e televisione, proveniva da una tradizione europea e nord americana ben consolidata. Gli stessi autori però, per giustificare le proprie idee e convinzioni, citavano motti di personaggi illustri come lo stesso Guglielmi che dichiarò “La tv, per le sue caratteristiche, ha il compito di raccontare senza infingimenti, rinunciando a filtri. La mia aspirazione, ed era anche quella di Pasolini, è di raccontare la realtà con la realtà.”   Cavicchioli e Pezzini individuano le caratteristiche principali di questi programmi dicendo che: al centro vi sono eventi realmente accaduti (persone scomparse, delitti insoluti) di cui si cerca di raccontare la dinamica il più fedelmente possibile, senza però dimenticarsi di sfruttare il potenziale drammatico ( Chi l’ha visto? o Telefono Giallo) o la rappresentazione di fatti che ci vengono restituiti nella loro realtà di eventi, e cioè nel momento in cui accadono, (nella macchina della polizia o all’interno di un tribunale) così che il momento dell’evento coincide con quello dell’enunciato.  
A seguito dei primi successi riportati da questo nuovo stile che per la prima volta entrava nelle case degli italiani, nel 1987, nacque un nuovo programma dal titolo Un giorno in pretura. Quest’ultimo fu apostrofato dai suoi padri come un grande successo, uno spettacolo che diventava funzione pubblica. L’entusiasmo di una parte iniziò subito a mescolarsi con lo sdegno di un’altra che accusava la nuova televisione di sciacallaggio e di lesione alla privacy. Si mossero in contrapposizione e per colpire i primi reality tv intellettuali di chiara fama come Umberto Eco che dichiarò “Questo tipo di gogna vale un ergastolo” riferendosi ad Un giorno in pretura che riprendeva processi e vicende giudiziarie di vario tipo. Ma gli autori insistevano nella ricerca di un tipo di televisione che optasse per mettere a confronto le varie avventure del quotidiano. Un continuo susseguirsi di sperimentazioni portò alla realizzazione di programmi come Allarme in città, Storie vere, Storie del 113 che offrivano al fruitore dello spettacolo televisivo non soltanto una facile occasione di identificazione, ma gli davano soprattutto anche la possibilità di vedere qualcosa che con i loro occhi non riuscivano a percepire dalla realtà che gli circondava. La tv verità dava inoltre avvio a un processo che la accomuna ai reality show contemporanei, e cioè l’attribuzione allo spettatore di un ruolo attivo, che allora si esplicava soprattutto attraverso il telefono, oltre che a internet o con s.m.s come oggi.   In quel periodo sarebbe stato difficile immaginare che reazioni avrebbero potuto avere certi giornalisti se avessero visto gli spettacoli degli anni duemila, come testimonia un articolo apparso su Il Giornale il 24 marzo del 1991 firmato Franco Cangini. Sostanzialmente egli vedeva due tipi di televisione: un primo, spettacolo di varietà ed evasione contornato da telefilm stranieri, intesi come buoni messaggi per collettività occidentale, un secondo formato da programmi di fantasia o di informazione basati sulla drammatizzazione di mali sociali che diffondevano frustrazione e consensi per il partito comunista. C’é da considerare che Rai tre era una giovane rete priva di attrattiva fino a quel momento e che invece grazie a questa gestione fu rivalutata molto da parte del pubblico e analogamente criticata da molti intellettuali come il suddetto Eco, Enzo Forcella e anche da un certo tipo di giornalismo. Gli autori televisivi che quasi inaspettatamente si trovarono a capo di una televisione completamente da sfruttare nelle sue molteplici potenzialità colsero subito la palla al balzo, in un clima quasi di incredulità iniziale data la disponibilità dei vertici Rai a regalare una rete alla sinistra politica che dal 1987 al 1992 ebbe non poche rivoluzioni all’interno di essa. L’importante in questa sede è concentrarsi sulla nuova forma di linguaggio che stava entrando pian piano anche nella testa e nelle menti del pubblico. I vari programmi precedentemente citati avevano un peso diverso per quello che concerne la nuova forma di linguaggio che si era voluto sperimentare, ma tra questi Un giorno in pretura crea scontenti più nel mondo della cultura che in altri. Lo sfruttamento della sofferenza altrui o il ritorno alla gogna pubblica (vedi Eco) spinge gli autori a una difesa e una riflessione su quello che volevano fare all’interno di Rai tre, in quanto essi si prefiggevano l’obbiettivo di dare più trasparenza ed equanimità ai dibattiti dei tribunali . Un’altra accusa mossa nei loro confronti era quella di preoccuparsi maggiormente dell’auditel (ovvero degli ascolti) che non di costruire una rete di rilevanza culturale. Questa accusa produce da parte del terzo canale Rai una motivata autodifesa che essenzialmente si basa sulla definizione di cultura sostenendo che se questo concetto è ben interpretato è ovvio che Rai tre era un canale estremamente culturale. Un giorno in pretura o Telefono giallo o Chi l’ha visto? non erano qualcosa di effimero per la facile contezza del popolo ma tutto era giustificato da un ben definito obbiettivo. Guglielmi e Balassone essenzialmente definiscono il loro concetto di cultura contrapponendolo a quello dei loro detrattori. Cultura non è solo Shakespeare o Beethoven ma anche programmi come i primi reality che avevano promosso per la loro rete. Se la cultura la si intende come il regno dei contenuti in quanto messaggi atti ad attivare una comunicazione pedagogica e plasmare  così la personalità di chi la assorbe, si dà una definizione obsoleta e in contro tendenza con un’altra più moderna e libertaria che afferma che tutto è cultura, cioè che tutti i messaggi che provengono dal complesso del reale, pongono un problema di giudizio e quindi un impegno di scelta. Quella che prediligono gli autori Guglielmi e Balassone è sicuramente una definizione mediana che definisce i contenuti culturali informativi, più che nelle forme in cui sono canonicamente vestiti, in quelle dove possono forse essere meglio espressi da modelli formali non canonici che mai e poi mai si penserebbe di mischiare con quei nobili contenuti. Dunque anche attraverso programmi non apertamente o classicamente culturali si può costruire una rete rispettabile e dai contenuti profondi. Il dovere di quest’ultima è di dare efficacia ai propri messaggi attraverso nuove forme espressive che non copino il passato e il già visto. Attraverso questo ragionamento si individua la definizione finale di cultura secondo Guglielmi e Balassone  “cultura è la tensione a scoprire e aiutare l’emergere di tutto ciò che è nuovo, o meglio di tutto ciò che confluendo e intrecciandosi, da corpo ed alimento alla vitalità del reale ”. Anche l’auditel grazie a questo procedimento ne ha giovato ma è stata soltanto una conseguenza, in quanto la priorità era quella di portare sul piccolo schermo delle novità, che adesso possiamo chiamare anche culturali, ma che soprattutto sono passate col nome di tv verità. Certo le obiezioni su come certe idee vengono sviluppate sono sempre possibili, ma è indubbio che le intenzioni non erano quelle di speculare sulla realtà per facili consensi. Quello che interessa ai fini di questa tesi è la ricerca che già alla fine degli anni Ottanta si cercava di sperimentare per una tv più reale più vicina alle esigenze del pubblico, più a contatto con la vita dell’uomo qualunque. Anche l’andamento dell’ascolto ha portato un premio a questo tipo di coraggio che risultava essere sempre più gradito dai telespettatori. Ci sono infatti programmi costruiti con materiali già popolari (come il quiz, il cabaret ecc.) che subito richiamano molte persone che li ri-conoscono, e ci sono programmi realizzati con materiali nuovi che devono fabbricare essi stessi la loro notorietà. Chi l’ha visto? è un esempio calzante di come certi propositi innovativi con il passare del tempo vengono incoronati dal giudizio del pubblico . Lio Beghin, autore del programma, non mirava allo share ma ad aprire uno squarcio sulla realtà e sulla tv nuova che si poteva  proporre  dall’ora in poi. Questo tipo di televisione apportò un nuovo concetto di realtà, per tutti gli operatori del settore e soprattutto per tutti i fruitori di questo tipo di trasmissione. A posteriori Cavicchioli e Pezzini  invitano a concentrarsi sull’istanza rappresentativa della realtà (della Tv di Rai tre) più che sulla necessità di scoprire o confessare la verità delle cose. Sempre le suddette auitrici parlano di un neorealismo televisivo, e cioè di un genere del discorso in cui il modello classico della televisione come informazione e specchio della realtà si sovrapponeva a quello della televisione come intrattenimento. Ricordiamo che allora, in trasmissioni come I racconti del 113 oppure Un giorno in pretura, attraverso un dosaggio ben calibrato di cronaca e fiction, il tentativo era quello di tornare alle fonti reali della cronaca della vita, dopo anni di telefilm dedicati alle istituzioni del nostro sociale (ospedali, centrali di polizia, grandi alberghi e navi dell’amore), che assumevano il ruolo di contenitori ideali di fatti di cronaca e di vita vissuta romanzabili e memorizzabili . In questi programmi la televisione mostrava se stessa nel suo farsi, era vera anche perché costruiva i suoi enunciati a telecamere accese e in trasmissione, oltre che  puntare il dito sulla vita quotidiana. Gli autori comunque erano sempre quelli che decidevano che tipo di realtà raccontare facendo una opera di montaggio preventiva, calcolando e scegliendo dove puntare la telecamera. Con questo caso particolare di quindici anni fa si apre, in Italia, la venuta della reality tv che assume connotazioni differenti nel corso del tempo.  

  

Gli anni Novanta

 “Il mito della televisione verità è crollato […] ci si è accorti che la televisione moderna non cerca tanto la verità dell’enunciato […] ma persegue invece la verità dell’enunciazione ”.
Gli anni Novanta apportano un nuovo modo di raccontare la realtà, che si differenzia dai programmi che Rai tre aveva promosso e su cui mi sono soffermato nel capitolo precedente. Dalla terza rete pubblica ci spostiamo quasi esclusivamente alle reti commerciali che hanno visto fiorire programmi cult ( per questo genere) come: Stranoamore, Per tutta la vita, Colpo di fulmine, Il brutto anatroccolo, Perdonami, Carramba che sorpresa e trasmissioni più recenti come Al posto tuo (Rai) e Uomini e Donne. Se la tv verità sembrava inaugurare un genere nuovo, il reality show pare invece il risultato di un sapiente rimescolamento di più generi televisivi classici, da quello informativo, al varietà, al talk show, alla fiction, ai game show e alla soap opera da cui eredita il gusto del melodramma e una retorica dell’eccesso. Questo macrogenere è forse ancora difficilmente definibile in quanto contiene un miscuglio di idee che si differenziano di volta in volta. Ma si può tranquillamente affermare che nelle intenzioni di molti dei suoi autori, questi programmi rappresentano una televisione che si propone come uno strumento al servizio degli spettatori, a cui viene offerta l’opportunità di raggiungere degli obiettivi solo a quel momento vagheggiati, come la notorietà, la ricchezza, ma anche il ricongiungimento con persone scomparse, ecc.. ecc.. La differenza tra questi tipi di programmi e degli anni Ottanta è concentrata nei fini differenti. La tv diventa strumento nelle mani del pubblico, ma se con la tv verità si aveva uno svelamento di fatti, nei reality show si ha una prefigurazione di supposti bisogni, o raggiungimento di presunti desideri dello stesso pubblico assunto a protagonista, ormai attore a pieno titolo di un immaginario che fino a pochi anni fa apparteneva esclusivamente al cinema di finzione. Non si ha più una finestra sul mondo, ma si tende ad raggiungere il lieto fine tipico di un certo tipo di cinema, aggiungendovi la diretta e spostando quindi dal grande schermo avvenimenti ora concentrati  in televisione . Il peso avuto dall’intervento autoriale gioca un ruolo fondamentale riscrivendo le vite dei protagonisti adattandole al tipo di format, ma sempre evidenziando il lato sentimentale passionale delle vicende. Questo procedimento mette in relazione il telespettatore con il suo quotidiano e con le sue esperienze e i suoi sentimenti trasformando il pubblico in possibile protagonista. L’istanza comunicativa dei reality show pone così al centro la realtà dei sentimenti, e dunque la presunta autenticità di personaggi che sono spettatori convertiti in attori, sulla scena di una televisione dell’intimità che alla verità preferisce l’autenticità, figurativizzata in modo esemplare dalla presunta spontaneità delle lacrime in diretta. La cosa più interessante da affrontare a questo punto è l’analisi del continuo successo che trasmissioni di questo tipo hanno anche quando è evidente che alle spalle di una diretta o differita esista un copione ben prestabilito che artificiosamente crea storie con attori che fingono di avere realmente vissuto tali esperienze. “Tra la realtà e la finzione si apre quindi lo spazio di questi racconti che sono proferiti da un io non intenzionale, bensì reale: la relazione con la realtà riguarda quindi, nel suo complesso, l’effetto di vissuto che tali racconti producono ”. Questa affermazione pare assai riscontrabile con quello che accade nella televisione italiana del nostro periodo dove anche quando Striscia la notizia porta alla luce le verità nascoste di programmi come Al posto tuo il livello di ascolto non ne risente, quindi una spiegazione come quella di Jost è quanto mai riscontrabile da ognuno di noi. Il materiale grezzo dei reality show degli anni Novanta è comunque sempre manipolato da conduttori o autori anche quando certi fenomeni prendono spunto dal quotidiano vissuto di persone comuni disposte a riviverlo o a raccontarlo davanti a una telecamera. Spesso lo scopo di queste trasmissioni non è quello di farci conoscere una situazione reale, ma di provocare una adesione contingente, un processo di identificazione che si fonda sul riconoscimento di una parola costruita e trasmessa in quanto esempio generalizzabile. Non è importante ciò che appare attraverso il teleschermo, ma la verità di quel che c’è sul teleschermo, che produce fatti per la quotidianità del pubblico che li vede. L’abilità dei creatori di questo tipo di televisione sta nell’usare persone normali (o pseudo- attori) che a causa del loro linguaggio (spesso grezzo e volgare o soltanto di massa) e della loro apparenza lasciano nello spettatore quella sensazione di contiguità tra il salotto di casa e lo studio televisivo . In seguito analizzerò più specificatamente questo genere con esempi più concreti, me adesso al fine di questa riflessione su un certo tipo di trasmissione degli anni Novanta (che spesso ha attraversato anche il duemila fino a oggi) c’è da ricordare che la reality tv, oltre alla tv verità, il reality show e programmi sempre più ibridi e indefinibili come Il Grande Fratello, è composta soprattutto all’estero da altre forme di reality come i Real movie e le docu-soap che non hanno invaso l’Italia ma proliferano in paesi come l’Inghilterra o gli U.S.A. Questi programmi ancora non molto dibattuti da noi è necessario soffermarci, in quanto possono dare un contributo importante per capire il tipo di sperimentazioni che negli ultimi dieci anni hanno invaso il mondo degli audiovisivi . Il Real movie fin dalla sua presentazione in Italia avvenuta il 1999 per il programma I racconti di Quarto Oggiaro (regia di Gilberto Squizzato) rende bene l’idea di cosa si stia prefigurando all’interno del linguaggio televisivo odierno. La Rai con un comunicato propose “una nuova formula produttiva e una nuova forma di narrazione […] una fiction dal vero, realizzata a basso costo da una troupe leggerissima […] Questi quattro real movie sono dunque il primo tentativo di fondere organicamente fiction e attualità, mettendo in scena, accanto a pochissimi attori, un gran numero di personaggi reali per raccontare, come fossero un film, le storie della realtà ”. Quarto Oggiaro è un quartiere tra i più malfamati di Milano che viene descritto attraverso  la vita quotidiana dei suoi abitanti che si muovono all’interno di set reali, a differenza delle  soap girate in studi televisivi,  e che grazie a questo creano una atmosfera di  verità che scaturisce dai luoghi reali della vita. C’è da ricordare che Squizzato era già regista di I racconti del 113, e questo tipo di ricerca della realtà partiva già negli anni Ottanta fino ad arrivare a lavori del medesimo regista come Atlantis Un continente sommerso (Rai uno, 2000) e La città infinita (Rai uno, 2002) altri due real movie basati su storie vere, con attori non professionisti, ambientati in set reali, con l’intento dichiarato di restituire un sapore di verità . Le storie riportate sono quelle di gente comune come Roberta R. ragazza madre che vive a Milano distribuendo volantini pubblicitari (vedi Atlantis), e non più studi televisivi  bensì bar, strade, o uffici dirigenziali veri come in La città infinita dove si racconta la vita dei manager della new economy italiana. Quindi attori non professionisti che rivivono esperienze vicine alla loro quotidianità, riprese in esterni o in autentici luoghi pubblici, il tutto condito con aspetti più o meno amorosi per tenere desta l’attenzione del pubblico. Come nella tv verità c’è il tentativo di raccontare aspetti del reale spesso non trattati in altri spazi mediatici. La docu soap è un altro tipo di format che mischia essenzialmente due generi apparentemente diversi come il documentario e la soap. Questo tipo di reality tv, a differenza di quello appena descritto non è mai apparso in Italia ma, vale la pena sottolineare come la realtà in questo tipo di procedimento televisivo è una realtà dei sentimenti, o meglio i temi sociali propri del documentario vengono rielaborati a partire dai dettagli della vita quotidiana di persone comuni, che sono restituite agli spettatori in testi in cui la voce fuori campo media spiega e raccorda gli eventi. C’è una volontà da parte degli autori attraverso il montaggio e la regia di caratterizzare i personaggi al fine di agevolare una identificazione da parte del pubblico per raggiungere un intrattenimento sempre più appetibile e sempre meno sensibile al sociale. La docu soap strizza l’occhio al reality show tipico degli anni novanta, trasformando volutamente persone comuni in personaggi al fine di raggiungere uno share maggiore . Come accade in Uomini e donne di Maria de Filippi  e in molti altri programmi dello stesso filone anche le docu soap partono dal particolare per giungere all’universale, vale a dire alla creazione di modelli ed esempi di vita. Alla fine di questa panoramica è evidente che  le strade che si possono percorrere all’interno della ricerca di una maggiore realtà  sono molteplici e spesso in pieno contrasto tra loro. Come osserva Bruzzi, per quanto riguarda la docusoap “Il paradosso è che da un lato questi programmi affermano l’interesse per l’eccessivamente ordinario, dall’altro sostengono di aver al tempo stesso raggiunto successo e popolarità grazie alla scoperta di vere e proprie star, cioè individui che acquistano una propria identità al di là del ruolo che la serie ha creato loro” . Vediamo adesso di iniziare a tirare le fila di quanto detto fin qui per capire meglio questi macromondi in continua evoluzione.

Sandra Cavicchioli, Isabella Pezzini,La tv verità, Roma, Eri, 1994., p.18

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, Reality tv, Roma,Eri, 2002, p.15

Ibidem.

Ibidem. P.16

Angelo Guglielmi,Stefano Balassone, Senza rete, Milano, Rizzoli, 1994, p.50

Ibidem.p.51

Ibidem. pp.52 53 54.

  Sandra Cavicchioli, Isabella Pezzini, La tv verità, Roma, Eri, 1993, primo capitolo

Ibidem, introduzione

Ibidem, Primo capitolo.

Angelo Guglielmi, Stefano Balassone, op. cit., p.54

Cristina Demaria,Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., p.22

Angelo Guglielmi, Stefano Balassone, op. cit., p.55

Angelo Guglielmi, Stefano  Balassone, op. cit., p.57

Ibidem, pp. 57 58

Angelo Guglielmi,Stefano Balassone, op. cit., p.59

Ibidem, p.60

Sandra Cavicchioli,Isabella Pezzini, op. cit., p.18

Cristina Demaria. Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op.cit

Cristina Demaria, Luisa grosso, Lucio Spaziante, op. cit., p.24

Ibidem, p.25

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., p.25

Ibidem, p.26

Ibidem.pp.26 27

Ibidem. p.28

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., p.28

Ibidem

Ibidem, p.30

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit. p.30

Ibidem, si veda inoltre comunicato stampa della Rai del 21 ottobre 2000 p.2

Ibidem, p.31, si veda inoltre paragrafo Un caso particolare

Cristina Demaria, Luisa Grasso, Lucio Spaziante, op. cit., pp.32 33

Ibidem, pp.33 34

 

Il duemila

 A seguito di quanto detto proviamo adesso a tracciare i tratti più ricorrenti che differenziano e accomunano la tv verità, il reality show, il real movie e la docu soap.

  1. Un uso particolare delle strategie enunciative, tese a creare, a seconda dei casi, effetti di realtà, di autenticità, di vissuto, di identificazione  grazie a tecniche di ripresa atte ad evidenziare le suddette caratteristiche.

  2. Il ruolo del pubblico  e la sua trasformazione o in attore protagonista dello show o in testimone oculare, oppure di una fiction che mima la realtà.

  3. Un’ attenzione per i sentimenti e la loro melodrammaticità, e quindi il ricorso ad una narrazione da soap opera, e dunque la creazione di modelli esemplari che riguardano sia la funzione assunta dal mezzo televisivo( nel caso della tv verità e del real movie) sia quella delegata al pubblico attore.

  4. Un mutuato ruolo dello stesso mezzo televisivo in cui iniziano a confluire un insieme di ruoli simbolici caratterizzati da una forte istanza di mediazione sociale, che presuppone, come nel punto due, una nuova forma di relazione sociale tra l’istituzione televisiva e il suo pubblico, relazione che si adegua alla volontà di protagonismo che caratterizza entrambi

Per quanto riguarda i format di nuova generazione, la soap opera e il game show, danno un forte contributo all’evoluzione di programmi come Grande Fratello. Oltre a l’indugiare su primi piani e incentivare la melodrammaticità delle storie (come nei relity show) si introduce l’elemento del gioco, della sfida e della competizione. Grande Fratello o Survivor o Operazione trionfo mescolano più o meno sapientemente questi ingredienti dove in gioco ci sono persone comuni che mirano a vincere una notorietà e una fama imprescindibile dalle motivazioni che  gli spingono a partecipare. Attraverso le sfide e le eliminazioni oltretutto si creano degli eroi che entrano a far parte dell’immaginario e delle conversazioni del pubblico. Questo processo viene orchestrato anche da una strategia intermediale che evidenzia le varie anime di questi nuovi prodotti che si avvalgono di una mescolanza di generi per accattivarsi le simpatie del pubblico. Prendendo ancora ad esempio Grande Fratello, esso si avvale di una striscia quotidiana di mezza ora che enfatizza la sua serialità e contribuisce a creare storie dai singoli eventi. La diretta ventiquattro ore su ventiquattro ne esalta la dimensione fenomenologica, di real tv. L’appuntamento settimanale in prima serata rappresenta invece un ritorno al puro reality show, come Uomini e Donne, o al Posto Tuo dove torna la televisione dei sentimenti con interventi del pubblico e familiari dei concorrenti presenti in studio. L’interazione tra internet, tv a pagamento, riprese continuate e programmi in prima serata rafforzano l’identità di questi format, dando l’opportunità agli autori di sbizzarrirsi sempre in nuovi punti di partenza che danno vita a programmi sempre nuovi ma che inglobano in sé (come abbiamo visto) ingredienti simili tra loro come, ricapitolando: melodramma, gioco, partecipazione attiva del pubblico e linguaggio intertestuale e anche multimediale (internet, telefono, sms, tv a pagamento, riassunti pomeridiani, dirette in prima serata, riprese continue 24 ore su 24) . Alla fine di questa breve panoramica su l’evoluzione della reality tv dalla fine degli anni Ottanta ad oggi, la domanda che sorge spontanea è capire che tipo di realtà la televisione ci ha proposto in questo lasso di tempo, considerando il fatto che tra i vari generi che abbiamo provato a definire c’è una evidente interazione ma anche una forte differenziazione. Abbiamo nei paragrafi precedenti evidenziato come la tv verità partisse dal quotidiano, dalla strada al tribunale per raccontare  una parte di società, a detta degli autori trascurata o messa in secondo piano da altri programmi televisivi. La realtà dei nuovi programmi del duemila invece mira ad essere un contenitore di sentimenti e di possibili personaggi che elaborano il quotidiano per far parlare di sé al di fuori del mezzo televisivo. Se, come abbiamo visto, alcuni reality show si avvalgono di sceneggiature e attori pagati per interpretare un ruolo (vedi Al posto tuo) e i programmi come Grande Fratello sono composti di artificiose e studiate scenografie, mescolate a linguaggi ibridi che hanno al loro interno elementi di puro reality show, di fiction e altro, per cercare di capire più approfonditamente questi fenomeni non ci si può fermare alle dure accuse di tv spazzatura che spesso vengono mosse da giornali e intellettuali. “Il fenomeno reality tv degli anni duemila, anche sulla base di quanto detto in precedenza, può essere considerato come una forma di comunicazione propria del periodo post industriale, caratterizzata dalla perdita del legame tra identità individuale e identità collettiva, e dunque dalla caduta della credibilità e della legittimità delle vecchie istituzioni. La reality tv supplirebbe parzialmente a questa perdita , fornendo modelli possibili di ricostruzione dell’esperienza. Di fronte all’incapacità delle istituzioni di soddisfare le necessità dell’individuo, è la televisione a occupare questo ruolo, offrendo esempi di autenticità .(Castanares, 2002) Può sembrare una teoria un po’ azzardata ma sicuramente fondata su  aspetti riscontrabili nel mondo di oggi, anche se a mia opinione un po’ deprimente sotto un profilo umano, soprattutto quando certe teorie come le suddette possono essere riscontrate nelle conversazioni di amici nei bar nelle strade a scuola. Vediamo adesso di parlare più specificatamente di tre trasmissioni esemplari per l’argomento trattato. Comincerò da Un giorno in pretura, seguirà Uomini e donne, fino ad arrivare al famigerato, odiato ed amato, Grande Fratello. 

  

Un giorno in pretura

 Un giorno in pretura è stato identificato come la trasmissione pilota che all’interno della Tv verità si caratterizzava come la finestra sul mondo, e che probabilmente si avvicinava di più alle dichiarazioni di Guglielmi (vedi paragrafo Un caso particolare). Finestra sul mondo perché più di altre riusciva a partire dalla realtà come mezzo per fare della televisione. Anche la durata della trasmissione spesso era congrua alla durata dell’evento. Un giorno in pretura essenzialmente voleva raccontare quello che appunto accadrebbe in una normale giornata di lavoro in una pretura della repubblica. Vediamo adesso in maniera più analitica come si presentava la trasmissione e con che modalità veniva preparata. La sigla era composta su musiche di genere poliziesco, come funzione di paratesto che a detta di Genette dovrebbe avere una funzione nell’indirizzare l’atteggiamento cooperativo dello spettatore . Dopo le immagini che interagiscono con la sigla iniziale, e che partono dall’esterno di un palazzo di giustizia fino a seguire un uomo in toga dall’esterno fino all’entrata in tribunale, iniziava il programma con una breve presentazione sul caso in questione e poi si partiva con la presa in diretta del dibattito in tribunale. Non sempre la diretta era possibile per ritardi della corte o quant’altro, e a questo si ottemperava con un montaggio che desse allo spettatore l’opportunità di visionare le parti più salienti del processo. A parte alcuni tagli e adattamenti televisivi la realtà processuale veniva fotografata in maniera esatta. Alla fine il presentatore che aveva introdotto il caso, concludeva la trasmissione con una serie di domande che spiegavano le varie leggi che avevano portato a questa o a quella sentenza . Elementi di fiction non venivano sottolineati in maniera sostanziale, ci si atteneva al motto “raccontare la realtà con la realtà” ma si può intravedere una certa spettacolarizzazione dell’evento nelle domande finali e nella sigla di inizio che certo non scalfivano molto il fatto nudo e crudo che ci veniva presentato. Il tempo è pressoché parallelo tra l’evento e la televisione, soltanto una lieve e discreta operazione di montaggio nei casi in cui le due ore di programma non riuscivano a restituire il corpo del caso giudiziario. Ma a parte questi giusti commenti c’è da prendere in considerazione il fatto che l’inquadratura è la vera grande protagonista della trasmissione, poiché la telecamera si comporta come l’occhio di uno spettatore che segue le vicende giudiziarie al fine di captare la realtà circostante. Ma a differenza di un semplice spettatore la telecamera assume il ruolo di super occhio in quanto scruta i momenti salienti attraverso zoom, teleobbiettivi, ecc.. aggiungendo quindi, pur lievemente, una sorta di drammaticità che si ripercuote sull’appetibilità del programma che enfatizza il ruolo e la curiosità del telespettatore . Questo tipo di format riesce a trasmettere quel senso di finestra sul mondo che spesso manca in altre circostanze, forse per pudore o forse per mancanza di volontà da parte di autori e produttori. Quello che importa è comunque il suo linguaggio che elaborato attraverso elementi di montaggio e di drammatizzazione durante le riprese, riesce comunque a filtrare un aspetto della vita comune di molti cittadini che si trovano direttamente o indirettamente coinvolti in vicende giudiziarie a cui nessuno di noi a priori può pensare di sottrarsi in quanto inevitabilmente alcuni eventi della vita possono sottoporre chiunque ad una esperienza del genere. Oltre a questo, “Un giorno in pretura, forse, più di altre trasmissioni può far vedere l’aspetto problematico di ciò a cui ci riferiamo quando parliamo di realtà o verità, e soprattutto come i due ambiti non coincidano affatto, se per verità non si intende semplicemente la ricostruzione di un atto accaduto, [ciò che si è dato come caso], ma per la sua interpretazione, il suo senso.

Uomini e donne

 Uomini e donne è un programma che caratterizzò negli anni Novanta il modo di fare reality show, e che tuttora  va in onda con un seguito di pubblico importante. Questo format nasceva come un classico talk show dove persone comuni accettavano di esporre i loro problemi attraverso la televisione e davanti a un pubblico che esprimeva pareri e faceva il tifo accalorandosi alle vicende presentate dalla conduttrice Maria de Filippi . L’evoluzione del programma va invece in senso opposto, poiché non c’è più scontro tra problemi di gente comune,  bensì l’incontro nello studio televisivo di persone che si corteggiano in modo spettacolare, senza mai essersi visti prima. In questo senso la trasmissione ha una sua continuità con le prime edizioni soltanto perché il tema è parlare comunque di uomini e donne comuni, mettendo in scena un po’ del loro quotidiano. “Il meccanismo televisivo si raffina sempre  di più in quanto luogo di rispecchiamento e di costituzione di valori ”. La conduzione è in contrasto con la classica presentazione di un programma, di fatto Maria de Filippi rimane al margine della vicenda dando spazio agli interventi del pubblico e alle prove di seduzione da parte dei cacciatori nei confronti della preda. La presentatrice lascia lo spazio ai protagonisti, salvo poi intervenire per ricordare la forma e il modo in cui ci si deve comportare all’interno del gioco, che comunque finirà con la composizione di una nuova coppia che si è formata e conosciuta nello studio televisivo davanti a milioni di telespettatori . Il tutto si svolge in uno studio pressoché uguale a quello degli inizi dove tra le due platee di pubblico la conduttrice dirige e controlla l’evolversi della situazione, con l’aiuto di una esperta di problemi di cuore che prende il nome di Tina. Questo nuovo personaggio interagisce con la conduttrice dandole modo di spiegare le varie fasi del gioco, e con i contendenti che spesso cercano di farsela amica per catturare il pubblico di sala e televisivo. Tina è seduta su una vistosa poltrona, posta al lato opposto di Maria de Filippi, e ha il ruolo di intermediazione con il pubblico, i concorrenti e la presentatrice, raccogliendo e centralizzando spesso l’attenzione delle telecamere . Quello che si può facilmente notare è come la televisione attuale importa il pubblico dentro il proprio spazio, proseguendo nella retorica della prova, subordinata però a un regime di pura visibilità . Come affermato nel paragrafo sugli anni Novanta, in questo reality show possiamo riscontrare quanti generi televisivi si siano sovrapposti  per arrivare al format attuale, tanto che Uomini e Donne da puro talk show con una spiccata attenzione nella melodrammaticità degli eventi si è evoluto fino ad arrivare nel duemila a presentarsi come una continua ricerca per mettere il pubblico nella possibilità di accedere al mondo dello spettacolo anche grazie a corteggiamenti in diretta o quanto altro . Lo studio del programma in questione è pieno di gente comune che raggiunge visibilità senza nessuna dote particolare, anzi parlando di se stessi delle proprie abitudini dei propri sentimenti e convinzioni. Una ricerca che porta sempre più ad un processo di identificazione che fa il successo di questi format.

 

Grande Fratello     

 Grande Fratello è sicuramente il programma culto degli anni duemila. E’ riuscito ad accendere polemiche all’infinito conquistando un seguito di pubblico estremamente vasto, che ha portato gli autori del format a far seguire la prima edizione da molte altre che annualmente vengono riproposte sugli schermi di Mediaset. Cerchiamo adesso di indagare gli aspetti fondamentali del programma, prendendo in considerazione la sua prima edizione che, salvo qualche novità, rappresenta la base su cui si appoggiano i suoi successori. Dieci concorrenti, divisi equamente tra ragazzi e ragazze, entrano in una casa dove l’unico contatto con il mondo esterno sarà, per tutta la durata del gioco, con il Grande Fratello, che è rappresentato da una voce fuori campo che consiglia e riprende i concorrenti. Oltre a questo, tutte le stanze della casa sono dotate di telecamere che riprendono in diretta la vita dei ragazzi ventiquattro ore su ventiquattro. Ogni settimana gli autori danno dei compiti specifici ai concorrenti che devono superare queste sfide poste loro per aumentare il loro budget quotidiano. Tutto questo fa da  sfondo ad una vera e propria gara ad eliminazione dove chi rimarrà per ultimo vincerà un premio in denaro . Il programma si divide in varie sezioni, una rappresentata dalla possibilità di guardare l’interno della casa in ogni momento che il telespettatore vuole, una rappresentata dal riassunto quotidiano degli avvenimenti salienti della giornata e una dall’appuntamento settimanale con la conduttrice che per due ore ricrea in studio un vero e proprio reality show con il pubblico e i familiari dei concorrenti. Lo spazio televisivo assume una forza dirompente che si attiene alla regola del se non si vede non accade. All’interno della casa si ricrea una microsocietà, che con norme diverse da quelle della vita al di fuori della portata delle telecamere, si sottopone al giudizio del pubblico. La casa, i luoghi di provenienza dei concorrenti e lo studio adibito a reality show per le prime serate, rappresentano lo spazio del gioco, oltre questo esiste il fuori astratto e invisibile, che viene continuamente tematizzato come luogo altro. Per questo particolare format alla luce delle sue regole e della loro realizzazione è più corretto parlare non più di verità della enunciazione, ma è più giusto parlare di effetti di realtà puramente interni all’enunciato . I concorrenti affermano di avere già vinto proprio perché sono lì sotto gli occhi delle telecamere, e anche se la vittoria finale e l’equivalente premio in denaro sono appetibili, il grande successo che queste persone sentono dentro di loro è l’aver conquistato lo spazio televisivo. Quando il meccanismo del programma impone di fare delle nomination che porteranno sotto il giudizio del pubblico i più sgraditi della microsocietà formatasi all’interno della casa, si può riscontrare molta tensione e paura. I ragazzi che partecipano alla gara sono profondamente presi dalla loro visibilità e altrettanto la televisione riesce a farsi guardare dal pubblico senza proporre niente di particolare se non persone comuni senza nessuna capacità artistica particolare. Si torna al grado zero della televisione, rappresentato dal vedere per vedere, senza altro aggiungere . In questo senso la prima edizione ha fatto scuola proprio perché non c’era quella consapevolezza che i concorrenti delle edizioni successive avevano già. Il fatto che i concorrenti non avessero capacità particolari, oltretutto li ha avvicinati ulteriormente allo spettatore comune che si identificava con caratteri e mentalità vicine al suo vissuto. Il titolo del programma come è noto prende spunto dal racconto di Orwell (1984), dove l’occhio nascosto ma onnipresente rappresentava il controllo e la sorveglianza sociale, atti a verificare la regolarità dei comportamenti dei singoli cittadini. “Nel gioco televisivo, l’idea di Grande Fratello, invece di esercitare un controllo sociale, rappresenta la possibilità di osservare la vita di individui che scelgono di essere giudicati per essere guardati ”. Di fatto la sopravvivenza all’interno della casa è quasi del tutto rimandata al giudizio del pubblico che in base alla simpatia trasmessa dai concorrenti giudica e elimina, pian piano, fino ad arrivare al vincitore che oltre ad un assegno in euro è colui che si è sottoposto più tempo alle telecamere. La struttura narrativa del format è incentrata sugli aspetti interni dei concorrenti che fanno della loro visibilità il punto di forza della trasmissione. La soap opera ha una struttura narrativa simile; come scrive (Ferraro 2000. p.52) a proposito di Beatiful,  “ il centro della narrazione non è… ciò che accade… bensì ciò che si cela nell’interiorità dei personaggi , e che deve essere dunque in mille modi esposto, discusso, spiegato. Ciascun personaggio si qualifica come osservatore di se stesso, analizza con ostinazione il proprio sentire, si auto descrive a se e agli altri ”. Anche in Grande Fratello la tensione è focalizzata su questi aspetti che vengono stimolati dalle continue nomination che settimanalmente mettono il pubblico in grado di giudicare i concorrenti, che a loro volta espongono sotto stress la loro interiorità. La narrativa dello show è dunque legata alla percezione da parte dei telespettatori di sentimenti che vengono a galla grazie a particolari regole del gioco. Come possiamo facilmente dedurre, alla fine di questa panoramica che ci ha guidato nel vasto mondo della reality tv, è che ci troviamo di fronte a dei format che variano tra loro, ma che nel corso del tempo si sono concentrati sempre più a creare una impressione di autenticità di sentimenti, per il facile consenso televisivo. Addirittura con i reality  del nuovo millennio ci si presentano delle forme ibride, di  varie format, che sembrerebbero creare la realtà in provetta. Riprendendo l’esempio del Grande Fratello possiamo notare come nelle nuove edizioni del programma i ragazzi che partecipano al gioco sono presentati con definizioni stereotipate (come il timido, l’audace, ecc. ecc.) che agevolano il processo di identificazione da parte del pubblico nei confronti dei concorrenti. Questo tipo di procedimento ricorda le maschere della commedia dell’arte, le quali improvvisavano battute e racconti senza mai evadere dal loro ruolo predefinito. Nelle conclusioni finali intendo mettere in evidenza i vari motivi che hanno caratterizzato i primi due capitoli, confrontandoli tra loro e analizzando i punti cardine come: la difficoltà di definizione, il concetto di realtà, i personaggi e la loro funzione, i rapporti con il passato e il tipo di linguaggio che è stato sperimentato. 


Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., pp.38 39

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., pp. 44 45

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit. p.52

Mi riferisco all’uso dei motti Pasoliniani, per spiegare il tentativo di portare in tv una sorta di neorealismo del piccolo schermo.

Gerard Genette,Soglie, Torino, Einaudi, 1989.

Sandra Cavicchioli, Isabella Pezzini, op. cit. pp.77 78

Sandra Cavicchioli, Isabella Pezzini, op. cit., pp.80 81

Ibidem, p.82  La verità nel caso di un Giorno in pretura può sempre essere rivista e capovolta  da un ricorso in appello. La realtà a volte non ci mostra la verità delle cose.

Vedere ad esempio, www.reality-channell.Tv

Maria Pia Pozzato, Lo spettatore senza qualità. Competenze e modelli di pubblico rappresentati in tv, Roma, Eri, 1995, p. 131

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., pp. 141 142

Tina è l’esempio di questa nuova televisione che produce personaggi appetibili al pubblico attraverso i suoi meccanismi che tendono a riciclare  in nuove trasmissioni gente comune diventata nota attraverso i reality show.

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., p.141

Nell’ultima edizione Uomini e Donne, si è avvalso anche di contributi video girati in esterna. Un netto richiamo ai Format esplosi negli anni duemila.

Cristina Demaria, Luisa Grosso,  Lucio Spaziante, op. cit., pp.80 81

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit.,p.83

Ibidem, p.87

Cristina Demaria,Luisa Grosso,Lucio Spaziante,op.cit., p.89

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., p.90

 

CONCLUSIONI FINALI

 

Problemi di definizione

 In questa ultima parte ripercorrerò le linee guida che mi hanno spinto ad intraprendere questo percorso, evidenziando le possibili similitudini e differenze che sono emerse lungo questo cammino. “Seguire un uomo per novanta minuti questo sarebbe il mio film ideale” Questa affermazione di Zavattini è stata lo spunto per cui ho iniziato questa tesi, in quanto potevo ritrovare una apparente similitudine tra il pensiero neorealista e quella della reality tv dei giorni nostri. Adesso grazie al contributo dei capitoli precedenti cercherò di mettere a confronto questi due fenomeni cosi cronologicamente lontani tra loro. Possiamo notare come la definizione di neorealismo sia stata spesso studiata e messa a confronto con altri fenomeni letterari e cinematografici, ma analizzando i primi anni del fenomeno si può intuire come l’unità di intenti di molti registi della seconda metà degli anni quaranta era atta a rispecchiare la società dell’epoca anche attraverso stili diversi che hanno portato molti studiosi a parlare di neorealismi. Il punto cardine della questione è però a mio parere la volontà di fotografare la realtà della fine della guerra e quella immediatamente successiva. Rossellini, De Sica e Visconti hanno a loro modo raccontato molti aspetti della società dell’epoca usando il mezzo cinematografico come uno strumento di documentazione sociale e umana, cercando di compensare l’inevitabile finzione scenica con l’immediatezza e la genuinità della rappresentazione, creando l’effetto reale attraverso la recitazione naturalistica e le scenografie naturali. La questione è complessa se pensiamo a come questa idea più volte ripetuta da Zavattini sia stata interpretata e realizzata in maniera differente dai vari autori , ma la volontà che muoveva tutti era quella di rivoluzionare il modo di fare cinema sottolineando l’importanza di ogni singolo evento che potesse accadere nel quotidiano. La definizione di reality tv, invece, raccoglie al suo interno molti piccoli sottoinsiemi che oltre a differenziarsi per stili e linguaggi diversi si discostano fortemente gli uni dagli altri anche per la filosofia che li muove, a differenza dei neorealismi che nei primi anni del dopoguerra almeno erano uniti da intenti comuni . La reality tv è dunque un fenomeno articolato che si sviluppa in Italia per più di quindici anni e che nel corso del tempo prende il nome di Tv verità, reality show, real movie ecc. ecc. Negli ultimi anni però il reality show e i suoi derivati hanno spodestato gli altri format invadendo la televisione italiana. Da qui le difficoltà di definizione, poiché adesso è facile identificare tutta la reality tv con il reality show. Dobbiamo subito cercare di capire come la realtà all’interno di questi fenomeni sia stata sviluppata ed elaborata, partendo da una branca della reality tv. Nel paragrafo Un caso particolare (gli anni ottanta) abbiamo visto la nascita della tv verità, che rappresentava una vera e propria rivoluzione nel panorama televisivo dell’epoca, apportando un linguaggio rinnovato all’interno del servizio pubblico. “La finestra sul mondo” , espressione scelta spesso per definire film neorealisti, veniva qui riutilizzata per spiegare i fini ultimi della nuova televisione di Rai tre dei tardi anni Ottanta. Pur attraverso media diversi, possiamo ritrovare un legame tra questo tipo di reality tv e il cinema neorealista in quanto la realtà raccontata era quella che si viveva al di fuori del media stesso, cioè nel caso del neorealismo si ripescavano da fatti di cronaca o da testi letterari (vedi Hemingway o Verga) gli spunti per analizzare la situazione sociale di quegli anni  (vedi Sciuscià o Ladri di biciclette) o per rivivere eventi storici come la liberazione alleata e la resistenza partigiana, (Roma città aperta e Paisà). Nel caso della tv verità il fatto di cronaca è altrettanto importante per cominciare una investigazione televisiva (Chi l’ha visto?) o per entrare nelle vite di persone comuni sotto giudizio (Un giorno in pretura), ed anche se il mondo è cambiato e i media si sono evoluti il concetto di realtà applicato in questi due fenomeni è per lo meno simile. Di fatto anche Squizzato, già regista per programmi come I racconti del 113, continua il suo percorso negli anni novanta portando in Italia il real movie con film come I racconti di Quarto Oggiaro o Atlantis  (Gli anni novanta) raccontando la verità della vita, tentando di cogliere talvolta i segni dei tempi che stiamo vivendo. Il fatto stesso che questi film per la televisione siano girati con attori semi professionisti o con dilettanti scelti soltanto perché nella loro vita hanno condiviso le stesse esperienze dei personaggi della pellicola, inevitabilmente  fa pensare alle teorie Zavattiniane e alla stessa teoria dell’amalgama proposta da Bazin (vedi paragrafo I divi del neorealismo). Scrive Squizzato “…Mi guardo intorno, osservo, ascolto: scrivo in pochi giorni la traccia di un copione, giorno per giorno adatto la sceneggiatura, e quando filmo so per certo che i personaggi reali presi dalla vita saranno dei bravissimi attori, perché mi regaleranno, senza saperlo, tutta la verità che si nasconde in uno sguardo, in un gesto, in una parola, in un silenzio (Squizzato 1999.) Certo questo tipo di procedimento non può non far pensare al De Sica di Sciuscià o al Visconti di La terra trema, dove il contatto con la vita, con i suoi dolori e le sue contraddizioni si respirava ogni giorno. Questa realtà è quella della vita della strada, dell’esperienza quotidiana, e proprio in questo che ritrovo un pezzo di neorealismo in queste operazioni televisive, con le dovute differenze sociali e formali che sono dovute da motivi temporali e mediatici. Ma la tv verità e il real movie hanno lasciato il posto alla nuova reality tv, quella più popolare quella dei grandi ascolti quella di cui si parla e si è parlato di più. Vediamo nel paragrafo successivo a cosa mi riferisco.

Reality show e neorealismo: che realtà?

“Il reality show ha un antenato il ready made” . Cosi come coloro che vengono prelevati dalla loro vita reale per andare a recitare il loro psicodramma coniugale all’interno dei format televisivi degli ultimi anni, anche Duchamp prelevando un portabottiglie dal mondo reale e adagiandolo in un altro contesto gli conferisce altrove una iperrealtà indefinibile; il portabottiglie nel museo e la persona in televisione diventano più reale del reale. Lo spettatore che davanti lo schermo si sposta all’interno di esso realizza la stessa conversione del portabottiglie. Questa evidente provocazione dell’illustre sociologo francese ci aiuta a capire come in questo paragrafo ci stiamo sensibilmente spostando dal tipo di analisi proposta precedentemente. In sintesi la nuova reality tv crea la propria realtà all’interno dei suoi studi fornendo al telespettatore una facile occasione di identificazione, che viene ricambiata con alti indici di gradimento (si veda il secondo capitolo, paragrafo gli anni Novanta e il duemila). Ci troviamo di fronte ad un ragionamento che si pone agli antipodi di quello precedente poiché se la reality tv analizzata anteriormente si nutriva della tecnologia e del linguaggio televisivo, ma strizzava l’occhio al sociale e alla vita della maggior parte delle persone comuni, quella dei nostri giorni importa persone comuni al suo interno per realizzare realtà appetibili alla grande massa. Alla base di un così netto cambiamento che viene riproposto anche da Castaneres (si veda il paragrafo gli anni 2000) che essenzialmente imputava alla crisi della società post moderna l’avanzamento di una televisione che cerca di sostituire la vita reale con mondi paralleli distribuiti dal piccolo schermo, c’è da considerare l’aspetto puramente industriale ed economico. La nuova reality tv fornisce un prodotto commerciabile, a basso costo e produce divi televisivi (di cui parlerò in seguito) che lei stessa ricicla per altre trasmissioni. C’è anche da considerare che  il real movie per esempio non ha lasciato un forte ricordo nel pubblico, e la tv verità è invece riuscita a fare buoni ascolti, in quanto novità ed anche perchè, già introduceva al suo interno elementi (come le telefonate da casa) di interazione diretta col pubblico, quindi mischiava sapientemente il linguaggio televisivo commerciale con una sensibilità ed una filosofia improntata sul far conoscere tutti gli aspetti del sociale che prima di allora non venivano trattati. La cosa più logica sarebbe lasciarci andare ad una spiegazione come quella di Castaneres, il quale imputa il successo di questo tipo di televisione alla società del nuovo millennio, a causa forse del suo eccessivo benessere che a tratti sfocia in malessere. Miccichè in una sua riflessione, evidenziando i miseri incassi dei film neorealisti con quelli più importanti di altre pellicole della fine della seconda metà degli anni quaranta conclude dicendo “questi dati contrapposti con i film di pura evasione, ha cui si può vedere una sorta di continuazione col cinema fascista, danno la misura esatta del fallimento dell’operazione neorealista, nel suo punto programmatico più ambizioso e delicato, la volontà di indurre un mutamento radicale nei rapporti tra cinema e pubblico….La restaurazione moderata centrista non fece che accelerare, giocando non soltanto sui meccanismi repressivi che aveva, quanto sulla stessa reazione di rigetto di un mercato, cioè di una società, dove al di là dei parametri esterni poco era cambiato, che continuava ad amare gli stessi cantastorie e le stesse storie che l’avevano deliziata negli anni del fascismo, prima del ciclone della guerra” . I film a cui si riferisce Miccichè sono appunto film leggeri, di facile comprensione, simili ai Telefoni bianchi, dove tutto sommato si dava un lifting alla realtà proponendo dei momenti di identificazione con la borghesia presentata sul grande schermo. Scrive Brunetta “questi film [si riferisce ai Telefoni Bianchi, vedi paragrafo Da i Telefoni Bianchi a Ossessione] alimentano sogni collettivi della piccola borghesia che aspira ad una scalata sociale, che si proietta ben oltre le mille lire al mese” . Mi domando se la funzione che questo genere di pellicole aveva più di cinquanta anni fa, e che inequivocabilmente ebbe un grande successo di pubblico, non è forse riconducibile alla funzione che il reality show ha nei confronti del suo pubblico? Evasione, identificazione, proiezione in mondi appetibili e lussuosi, non è forse la grande forza di questi reality che proiettano i partecipanti al gioco ma anche i telespettatori ben oltre i mille euro al mese? Questi format televisivi sembrano creare una realtà in provetta (ovvero all’interno dello studio televisivo) che straripa nella vita individuale del pubblico. Non più il media che trae spunto dal sociale, ma il sociale che trae spunto dal media.

 

Personaggi e divi

 Ho accennato alla funzione dei nuovi divi mediatici nel paragrafo precedente, adesso analizzerò la questione in modo più analitico. “Se in passato il mass media proponeva super uomini e lady irraggiungibili, oggi la televisione non propone più il super man ma l’every man. ”Questa affermazione di U. Eco risale agli anni sessanta e tratta nello specifico il personaggio Mike Bongiorno. Questo concetto è ancora, se non di più, assolutamente contemporaneo, poiché la reality tv dei giorni nostri con programmi come Il Grande Fratello o Survivor ecc. ecc. propone personaggi comuni, senza particolari talenti che attraverso il meccanismo televisivo e la visibilità pressoché illimitata, riescono a diventare idoli e divi idolatrati dal grande pubblico. Stiamo attraversando l’epoca dell’every man. La domanda che sorge spontanea è, che differenza c’è tra i personaggi comuni del neorealismo e quelli contemporanei della reality tv? Come spiegato nel paragrafo i divi del neorealismo, l’importante per i registi di allora era smontare il principio della star per proporre una recitazione estremamente naturalistica e che rifiutasse i canoni classici del divismo. Bazin, tra l’altro ci ricorda che non è importante se l’attore è professionista o non, l’importante è che lo spettatore identifichi totalmente il personaggio con l’interprete . L’intento neorealista non era quello di sottolineare attraverso la regia o la sceneggiatura questo o quel personaggio, ma bensì riuscire a presentare una fotografia della realtà il più oggettiva possibile. La reality tv dei nostri giorni, anche qui  (come nel paragrafo precedente) si pone agli antipodi del cinema neorealista poiché mira a sottolineare i sentimenti e la mentalità dei singoli personaggi, anzi spesso volontariamente addossa degli stereotipi su ognuno di loro per agevolare una facile identificazione da parte del pubblico (vedi paragrafo sul Grande Fratello). E’ altresì evidente come nella tv verità non siano usciti divi o idoli, in quanto l’attenzione era puntata sulle vicende esterne del mass media e non su chi ne prendeva parte. Anche se abbiamo visto che non è sempre così, il cinema neorealista assume come protagonista i fatti e non le persone a differenza della reality tv degli anni duemila che invece si concentra sui personaggi per agevolare un processo di identificazione dove il pubblico si può rivedere. Non esistono più i grandi divi, paragonati a semi dei ma persone comuni che raggiungono il successo mediatico grazie soltanto alla loro mediocrità riscontrabile nella quotidianità. Il neorealismo negava il principio di star per dare spazio ai fatti che si raccontavano, a differenza di oggi dove si da spazio a chiunque. “Da finestra sul mondo siamo passati a finestra su noi stessi ”.


Epilogo

Il movimento neorealista ha sicuramente influenzato il cinema, ma anche la televisione, degli ultimi cinquanta anni. Le testimonianze riportate all’interno del primo capitolo (tra cui Woody Allen e Robert Altman) confermano l’importanza culturale di autori come Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti e Cesare Zavattini. La situazione storica in cui si affermarono questi cineasti, indubbiamente influenzò il loro metodo di lavoro, ma è altresì vero che la loro preparazione culturale ed anche l’influenza della letteratura nord americana della prima metà del novecento e quella verista della seconda metà dell’ottocento, diedero un forte contributo a molti registi dell’epoca. Alla fine degli anni Ottanta anche in televisione i pensieri e le opere neorealiste furono uno spunto indispensabile per l’avvento della prima reality tv italiana, che prese il nome di tv verità. Anche se la società era cambiata e il linguaggio televisivo si poteva permettere una interazione diretta con il pubblico (per esempio, le telefonate da case che in molte trasmissioni rendevano partecipe i fruitori di questi format) l’idea che aleggiava nella mente di questi autori televisivi era di proporre sul piccolo schermo “una finestra sul mondo” che evidenziasse gli aspetti della società che la maggior parte dei programmi televisivi dell’epoca trascuravano. Negli anni Novanta e nel duemila, questo fenomeno di reality tv si è trasformato in uno spettacolo che invece si pone agli antipodi del neorealismo italiano, in quanto sviluppa un processo di identificazione nello spettatore, costruendo all’interno dello studio televisivo una realtà costernata di lusso e spregiudicatezza, proiettando cosi il pubblico in mondi appetibili, che quasi mai si possono riscontrare nella vita della società odierna. Il neorealismo si proponeva di parlare di argomenti e situazioni che spesso il cinema degli anni antecedenti aveva trascurato, salvo qualche eccezione, raccontando la vita italiana in maniera diretta e a volte documentaristica. Sicuramente ogni regista, anche nei primi anni del dopoguerra, ha impresso almeno nelle opere più importanti del movimento il proprio stile, e a volte mostrato le proprie tendenze narrative, spesso sviluppate dagli anni cinquanta in poi. L’ esperimento televisivo, che aveva anche negli anni Novanta portato ad un tipo di format di pura ispirazione neorealista (il real-movie), sembra oggi aver lasciato spazio in maniera pressoché totale al reality show, che è ormai la componente più nota, discussa e seguita della reality tv. Il meccanismo commerciale spinge nella direzione dell’ascolto, senza dare troppo valore a componenti culturali che potrebbero avere anche una forte rilevanza sociale e di denuncia. Del resto anche il cinema neorealista, in diverse delle sue opere più importanti non ha raggiunto incassi soddisfacenti e spesso è stato sovrastato da pellicole che avevano molto più seguito dalla società del secondo dopoguerra. Anche se dagli anni quaranta, il mondo è cambiato, lo spettatore dei prodotti audiovisivi sembra ancora muoversi con le stessa logica di sessanta anni fa. Ho motivato la mia riflessione grazie allo studio effettuato precedentemente, e credo di poter affermare che ciclicamente il quotidiano tornerà a far parlare di se in maniera chiara e diretta, magari dal cinema, dalla televisione o da qualsiasi media che abbia la fortuna di incontrare talenti assoluti come i padri fondatori del neorealismo. 

A cura di Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, cit. 

Antonio Costa, op. cit., pp.101 102

Si veda ad esempio i paragrafi su Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, capitolo primo.

Si veda paragrafo Gli anni Ottanta, capitolo secondo

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit. p.230

Jean Bodrillard, Il delitto perfetto, Milano, Raffaello Cortina editore, 1996.

Ibidem.

Lino Miccichè, Il neorealismo cinematografico italiano, cit.

Gian Piero Brunetta, op. cit. , vol.1 p.248

Umberto Eco, Diario Minimo, Milano, Bompiani, 1992, saggio La fenomenologia di Mike Buongiorno

André Bazin, op. cit., pp.282 283 284

Cristina Demaria, Luisa Grosso, Lucio Spaziante, op. cit., p.26

 

Intervista a Carlo Lizzani

Lei dichiarò all’uscita di Roma città aperta “finalmente abbiamo visto un film italiano. Intendiamo per film italiano, che racconti cose nostre, esperienze del nostro paese che ci riguardano”.
Trova che esistano ancora al cinema o in televisione, prodotti, come la reality tv, che riescono a raccontare esperienze che ci riguardano?

La televisione ormai crea la sua filosofia a monte. Questa filosofia si basa sull’ascolto, però noi intellettuali non bisogna avere la puzza sotto il naso e forse dovremmo analizzare meglio certi fenomeni come la reality tv anche se tra il neorealismo ed oggi si tratta di due mondi differenti. Per quanto riguarda il cinema, credo che Giordana sia un regista che si avvicina, a suo modo, nel racconto di esperienze che parlano della vita reale.

Lei prese parte alla realizzazione di Amore in città, supervisionato da Cesare Zavattini. Miccichè sostiene che Zavattini realizza le proprie teorie sul pedinamento del personaggio, contro l’invenzione soggettivistica, contro lo spettacolo, per la ricostruzione del fatto di cronaca, per l’abolizione della grammatica filmica. Crede che alcuni reality tv si ispirino a tali concetti?

È vero Zavattini sperimentò le sue teorie come sostiene Miccichè, ma anche all’interno di quella esperienza si può riscontrare le differenze di stile che caratterizzano i vari registi che presero parte alla realizzazione di Amore in città. Penso che con le dovute distanze sociali, economiche e politiche Zavattini, che era molto blasfemo, probabilmente oggi avrebbe fatto un esperimento di reality tv, a patto che fosse gestito interamente da lui. In certi reality tv, a parte la volgarità, si potrebbe ritrovare un certo Zavattinismo, se usati con intelligenza.

Se potesse sintetizzare al massimo l’esperienza del neorealismo, come la definirebbe?

Ci sono due aspetti: contenuti sociali e contenuti formali.  
Con contenuti sociali intendo la delicata situazione storica del dopoguerra e il capovolgimento dei ruoli, con bambini costretti a fare gli adulti, donne che agiscono da uomini e preti che combattono come guerriglieri insieme ai partigiani.
Con contenuti formali intendo tre punti.
Cambia il modo di raccontare, si ha più coraggio e più voglia di sperimentare.
Cambia il modo di inquadrare i personaggi e il paesaggio e di conseguenza anche il montaggio ne risente. In America questo lo si ha con Wells e in Francia con Renoir.  L’inquadratura si apre si spalanca diventa il palcoscenico di varie atmosfere simultanee.
Per ultimo c’è da ricordare che gli autori del neorealismo, non solo Visconti, erano molto colti. De Sica era esperto di pittura e sicuramente la vicinanza con Zavattini incrementò le sue vedute. Rossellini aveva amicizie con musicisti di alto spessore. Secondo me tutti sapevano Kafka a memoria. Grazie a questo acculturamento è potuto fiorire il neorealismo italiano.

Hanno avuto molta importanza, anche, le istituzioni cinematografiche fasciste per questi giovani intellettuali?

Si sicuramente, la rivista Cinema in particolare diede una grande spinta a tutto questo. Il fascismo erudì moltissimi intellettuali del post conflitto. Tutto questo si rilevò un boomerang per la dittatura, e fu un bene.

Che cosa manca oggi, ai nuovi media per raggiungere dei livelli culturali così alti?

Non c’è una scuola, ne un movimento che porti a quei livelli. Forse esiste un ultimo bagliore che si ispira alle teorie di Zavattini. Lui sosteneva, ogni cento pagine, che comunque anche la fantasia è importante per rimescolare i fatti di cronaca o di vita reale.

Se il neorealismo cercava di raccontare delle storie vere, c’è chi sostiene (Castaneres) che la reality tv di oggi costruisce delle storie per supplire alla mancanza di certezze della collettività, fornendo modelli possibili di ricostruzione dell’esperienza. Che cosa ne pensa?

E’ vero, è giusto, la televisione cerca di fare da levatrice. Produrre il fenomeno, è una cosa più da laboratorio, crea conflitti tutti tra parentesi. Comunque anche in laboratorio si può tirar fuori qualcosa di interessante.

 

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